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© 2025 LEFT-HANDED GIRL FILM PRODUCTION CO, LTD
Taipei ad altezza di bambina è una città che scintilla e morde. In Left-Handed Girl di Shih-Ching Tsou, lo sguardo si allinea a I-Jing, mancina a cui un nonno superstizioso ha insegnato che la sinistra (la mano, ça va sans dire) è del diavolo. Un tabù antropologico che diventa licenza per rubare braccialetti al mercato - “solo” con la mano maledetta - e soprattutto filtro ottico con cui Tsou ricompone lo spazio urbano. Quando la camera scivola bassa dietro I-Jing tra bancarelle e néon, Taipei si fa caleidoscopio; quando risale all’altezza di I-Ann, sorella maggiore, il vento in scooter apre la città in corridoi di fuga e precarietà.


La parentela estetica con Sean Baker – qui non a caso montatore e co-sceneggiatore - è evidente. Come in The Florida Project, il realismo con gli occhi dell’infanzia non addolcisce il mondo, lo riallinea. Il montaggio è lo strumento che percuote e aggiusta: scatti, tagli, micro-azioni che diventano esperienza sensoriale. Lo scatto di I-Jing verso la bancarella, il cuore che accelera, la faccia stravolta da quella rivelazione che la realtà può - e spesso è - un’altra cosa rispetto alla trasognata e ingenua visione dei bambini. E come in Tangerine, la città è organismo economico che macina vite ai margini: la madre Chu-Fen stringe i denti tra spese impreviste (il funerale del marito) e scadenze improrogabili (l’affitto del bancone di noodles); I-Ann diventa “betel nut beauty” (sono le giovani donne che, vestite in modo appariscente e seducente, vendono noci di betel da chioschi illuminati al neon lungo le strade) in un teatro al neon di desideri tristi e contratti impliciti. Rispetto a Baker, Tsou cerca meno attrito e trova più tenerezza osservativa. Il suo cinema non cerca la “grana” della sopravvivenza ma la luce nascosta dei legami.


Senza rinunciare ad affondare il bisturi: l’umanità dei vicini di banco fa da contraltare alla falsa coscienza dei familiari stretti, dove affetto, debito e rancore si barattano a tasso variabile. L’affresco sociale è in miniatura ma netto: tre generazioni - nonna, madre, figlie - che contrattano capitale emotivo ed economico passando di mano.
Fino al gran finale, quando nascosto e apparente confliggono nella più classica reunion familiare (la festa per i 60 anni della matriarca) e tutto deflagra nel visibile, irresistibile momento da Segreti e bugie, con picchi di umorismo e di ferocia. Il melodramma arriva e squassa l’equilibrio in una delle scene-madri più belle dell’anno. I fili si annodano: protezione e colpa, denaro e fragilità, affetto e rancore. Tsou non ama il virtuosismo, segue le traiettorie del modo che qui e ora accede al visibile, lasciando emergere il non detto nello spazio tra i corpi. Il teatro è sociale, il cuore in camera.


Resta da dire ancora della voracità delle immagini- grandangoli che “divorano” il notturno di Taipei, l’iPhone non più strumento di rottura, ma parte integrante della sintassi visiva del nuovo realismo urbano - e una fiducia rara nell’ironia come anticorpo. Se qualcosa scricchiola è il tempo, non lo sguardo. Le rivelazioni si condensano troppo, le conseguenze non hanno il tempo di respirare. Lo sguardo però è chiarissimo: dignità dei margini, infanzia come misura del mondo, città come specchio incrinato in cui, a lampi, l’amore ritrova profilo. Tsou non imita Baker: dialoga con lui da pari, anche inscrittura. E la città risponde.