Ogni tesi necessita di dimostrazione. Il precetto che l’insegnante Carla Nowak (Leonie Benesch) impartisce ai propri alunni è matematico, insieme pedagogico. Se sui numeri non ci sono discussioni, una clamorosa smentita colpisce il piano dei comportamenti: sospetto può sortire, onus probandi, accusa ma non necessariamente giustizia.
 

Siamo in Germania, città di provincia. Scuola media, istituto d’eccellenza. Aule confortevoli, spazi adeguati. Si professa il confronto, il rispetto dei ruoli. Giovani rappresentanti di classe ammessi alla pari nei consigli d’istituto. Le linee guida di un moderno ministero dell’istruzione ampiamente rispettate. Tuttavia. A oscurare la faccia rassicurante della buona scuola intervengono alcuni furti. Episodi incresciosi, inaccettabili per un istituto che ha fatto della “tolleranza zero” il proprio motto ideale, neanche fosse una costola dell’AFD. Ecco contesto e premessa dell’ottimo La sala professori di İlker Çatak, con cui la Germania accarezza l’idea di un clamoroso bis all’Oscar come miglior film straniero, un anno dopo Niente di nuovo sul fronte occidentale. Ne avrebbe i requisiti, se non fosse per la concomitante candidatura di due capolavori come La zona d’interesse di Glazer (che parla di Germania) e Perfect Days di Wenders (titolo giapponese girato da un tedesco).

La sala professori, ©ifProductions_JudithKaufmann
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Questo dramma scolastico si difende con onore, regalandoci una delle sceneggiature più belle del 2023 (insieme ad Anatomia di una caduta della Triet). Nell’anno in cui celebriamo i cent’anni della morte di Kafka, lo script di Çatak e Duncker sembra tributargli omaggio, regalandoci un dispositivo narrativo di rara lucidità e perfidia. Un meccanismo diabolico che nell’avviluppo logico e implacabile di azioni e reazioni si spinge fino a sovvertire i fini originari e svelarne l’assurdo morale. Di buone intenzioni, si sa, è lastricato l’inferno. Dei furti la scuola vuol conto e ragione. Insegnanti s’improvvisano detective. Prima “torchiano” due rappresentanti di classe per farsi suggerire i presunti colpevoli. Poi organizzano una vera e propria retata in classe alla ricerca di prove. Tutto sotto lo sguardo atterrito della Novak, la giovane insegnante di origini polacche. Sono ammissibili simili manipolazioni e violazioni della delicata sfera psico-affettiva dei ragazzi? La disapprovazione della Novak appare del tutto giustificata. A maggior ragione quando i sospetti, indirizzati su uno degli studenti, Ali, si riveleranno infondati. Il fatto che Ali provenga da una famiglia turca non è un dettaglio che passi inosservato. I compagni si dividono tra colpevolisti e innocentisti e anche tra i professori serpeggia malcelato il pregiudizio.

La sala professori, ©ifProductions_JudithKaufmann
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Il film misura i guasti del sistema educativo, dove anche il più nobile intento può essere sporcato da ideologie di risulta e noti vizi di uomini e donne di ogni tempo. L’invidia tra colleghi, la maldicenza, il bullismo - insomma l’imperfezione umana in alcune delle sue facce - possono sempre aprire una breccia pericolosa. Non stupisce che il turco-tedesco İlker Çatak voglia utilizzare il microcosmo scolastico come metafora politica della Germania odierna (ma l’analogia è estendibile ad altri paesi europei), dove allarma la crescita dei movimenti di estrema destra, la retorica della paura, la crisi dell’autorità, la fobia della devianza e la criminalizzazione dello straniero. Riaffiorano fantasmi di un passato tragico, con cui sembrava che i tedeschi avessero fatto i conti per sempre. Invece persino in un piccolo plesso scolastico si replicano pericolose dinamiche di controllo, talmente subdole e diffuse che la povera Novak è costretta a chiedere a un collega suo connazionale di non parlare polacco a scuola.

La sala professori, ©ifProductions_JudithKaufmann
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A questo punto attori e questioni in gioco sembrerebbero ben delineati, così come il perimetro di un’operazione che lavora contemporaneamente su due livelli: il primo, diretto, di ambientazione scolastica; il secondo, metaforico, di denuncia storico-politica. Ma gli sceneggiatori si spingono oltre e, con un colpo di scena improvviso, attivano un terzo livello di lettura, che ribalta i ruoli e rimanda ogni giudizio. Accade cioè che l’eroina del film, la professoressa Novak, presa anche lei da inarrestabile scrupolo d’indagine, finisca per tendere una trappola al presunto ladro, per stanarlo. E vi riesce pure. Il problema è che questa iniziativa, lungi dal chiudere il caso una volta e per tutte, finirà per moltiplicarne i risvolti attivando una catena di eventi che confonderà il giudizio e metterà in pericolo la tenuta stessa della scuola. Innocenti e manipolatori si confonderanno dentro la linea di faglia che lacera questo piccolo mondo contemporaneo. Strappato tra responsabilità e verità, sorveglianza e privacy, regole e buon senso.

Seguendo il moto perpetuo e ansiogeno della Benesch, lo scacco di un punto di vista sempre contraddetto dalla logica contorta degli eventi - danza sincopata sulle quattro note di piano di Miller - La sala professori sposta il focus sull’istanza invisibile del racconto, evocando quelle forze che possono sempre mettersi involontariamente in moto e rovinarci. Mostrando di sentire gli umori di un tempo che artiglia il pensiero e l’etica positiva con caotico determinismo. Salvo rilanciare la posta in gioco nel finale. Una conclusione doppia che lascia tutto aperto.