“Come mai un altro film su Casanova?”. La provocazione di un giornalista a Leo Bernardi, regista di successo ormai sul viale del tramonto, coglie anche noi sui titoli di coda: c’era bisogno di un altro film su Casanova all’interno di un film sull’ennesimo regista in crisi che non riesce a fare un film?

Salvatores, per celebrare i primi (pluridecorati) quarant’anni di cinema, sceglie di guardarsi allo specchio accodandosi imperterrito alla schiera di colleghi che usano il meta-cinema come palcoscenico su cui riversare le proprie nevrosi. Il “Maestro” Bernardi, in crisi per la tormentosa passione con la giovane contadina Silvia, tira di spada, schitarra Dylan e s’intrattiene con qualche cortigiana nell’ultratecnologica dimora milanese. Tutto per dimenticarsi il film in cui s’è impelagato: il (cinematografatissimo) Ritorno di Casanova, ipotesto sempre il racconto di Schnitzler. Ma il tempo è tiranno: Alberto, storico produttore, s’è ipotecato la casa per portare il film a Venezia (visto il rimbalzo di festival l’autoironia si rivela feroce), il montatore Gianni (il fido Natalino Balasso) fa le nottate in moviola per assemblare il film, ma Leo è insofferente: finite le riprese s’è volatilizzata la voglia di montare, le allucinazioni di Silvia lo aggrediscono e un giovane regista in rampa di lancio rischia di spodestarlo definitivamente dalla scena lagunare.

Pronti, via, così, la mise en abyme egoriferita si fa – purtroppo- smaccata ed estenuante: il montaggio alternato di Julien Panzarasa allaccia subito la parabola discendente di Giacomo Casanova (Fabrizio Bentivoglio, altro fedelissimo, qui amatore bolso e scolorito) a quella del regista; entrambi spadaccini, entrambi braccati dal senso di angoscia per la fine dell’attrattività (cinematografica o erotica che sia), entrambi infatuati di una donna più giovane (va peggio a Giacomo che deve fronteggiare un aitante, giovane rivale) e costretti a giocare a dadi con la morte.

Doppiezza, dunque, in salsa autobiografica. Non snoccioleremo i rimandi prospettici tra regista e film, tra registi e attori, tra storia e storia del cinema, diremo solo che Salvatores, con il solito manipolo di fedelissimi tra cast artistico e tecnico, cerca l’autoironia ma trova la compassione (rancorosa): la contemporaneità schizoide di una Milano futuristica in bianco e nero, così come il Settecento, frazionato in campi lunghi (di granoturco) verdeggianti e interni a lume di candela (di Kubrick) si colorano di un crepuscolare senso di rabbiosa decadenza. Però, saggiamente, il cineasta evita l’affresco del secolo con il suo corollario moralista di prurigini fuori tempo (storico) perché più che l’erotismo cerca l’interiorità. In aggiunta, la fluidità felice del montaggio simmetrico, tra il Settecento e il 2023, ora vorticoso, ora compassato, infiocchettato da lente zoomate emotive sui personaggi, tiene a galla la storia compensando in parte la prevedibilità dei fili narrativi. Ma la forma raggirante alla fine non cancella la domanda dell’inizio: perché un altro film (nel film) su Casanova?