La notizia è rimbalzata nella notte dagli Stati Uniti: Netflix ha ottenuto un accordo in esclusiva per trattare l’acquisto di Warner, cioè degli studios e di HBO Max, il cuore industriale e simbolico di Warner Bros. Discovery. Se l’intesa dovesse andare in porto, il principale streamer del pianeta diventerebbe proprietario di una delle più antiche major hollywoodiane e del marchio che più di ogni altro ha ridefinito l’idea stessa di serie “prestigio”: HBO.

L’ipotesi di un asse Netflix + Warner Bros. + HBO non è una semplice operazione di mercato: è, senza esagerare, un terremoto industriale. Una piattaforma nata per disintermediare sale, broadcaster e pay-tv si salderebbe con una macchina costruita sul theatrical, su finestre e su rapporti strutturati con gli esercenti. In mezzo, una library che va da Casablanca a Game of Thrones, da Friends a Harry Potter, passando per Batman, Superman, Wonder Woman e l’intero universo DC.

Si arriva alla “trattativa esclusiva” dopo una guerra di offerte che ha coinvolto Paramount Skydance e Comcast, accuse di conflitto di interessi rivolte al management WBD, l’allarme degli esercenti sull’“effetto noose” per le sale (Netflix avrebbe un cappio stretto attorno al mercato delle sale) e le prime avvisaglie di un braccio di ferro antitrust negli Stati Uniti e in Europa. È da qui che parte la nostra inchiesta: per capire che cosa significherebbe davvero un blocco Netflix–Warner–HBO per il sistema cinema, per le sale e per un ecosistema europeo già messo alla prova dalla concentrazione del potere audiovisivo in pochissime mani.

Che cosa sappiamo: il punto sulla trattativa

La trattativa si muove all’interno di un perimetro molto preciso. Netflix non sta comprando “Warner” in blocco, ma punta al cuore creativo e industriale del gruppo: gli studios cinema e tv di Warner Bros. e il marchio HBO, con la relativa piattaforma streaming (HBO Max). Resterebbero invece fuori dall’operazione i canali lineari – CNN, TNT, TBS e il resto del bouquet via cavo – destinati a confluire nella scatola separata delle Global Networks, l’eredità più ingombrante e meno scintillante dell’era Time Warner e Discovery.

Sul tavolo c’è un’offerta che i grandi quotidiani finanziari stimano fra i 28 e i 30 dollari per azione, per una valorizzazione complessiva nell’ordine dei 70–75 miliardi di dollari, in larga parte cash. A rendere ancora più chiara la determinazione di Netflix c’è la promessa di un “break-up fee” da 5 miliardi in caso di stop regolatorio: una sorta di assicurazione inversa, che segnala quanto la piattaforma sia convinta di poter reggere la scommessa, anche sul terreno scivoloso dell’antitrust.

Per capire come si sia arrivati sin qui bisogna tornare alla fusione “forzata” fra AT&T–WarnerMedia e Discovery nel 2022. Il nuovo conglomerato Warner Bros. Discovery nasceva già appesantito da un forte indebitamento, colpito dal declino strutturale della tv lineare e stretto nella morsa di un modello di conglomerato generalista che funzionava nell’epoca del cavo ma fa sempre più fatica in quella della guerra dello streaming. Nel 2025 il consiglio d’amministrazione ha quindi scelto la strada drastica dello scorporo: da una parte una società dedicata a Streaming & Studios (Warner Bros. film e serie, DC, HBO, HBO Max, videogiochi, library, infrastrutture produttive), dall’altra una Global Networks che raggruppa i canali via cavo e le attività legacy. Lo spin-off, previsto per la metà del 2026, nasceva esplicitamente anche per rendere più agevole la vendita strategica della parte “nobile” – studi e piattaforma – a un partner ritenuto in grado di valorizzarla. La trattativa con Netflix è, in questo senso, la prosecuzione di quella premessa.

Nel frattempo, su Warner si è consumata una vera e propria corsa. Paramount Skydance, il nuovo colosso nato dalla fusione tra Skydance e Paramount nell’estate 2025, ha tentato il colpo da KO: acquisire l’intero WBD in contanti, forte anche dell’appoggio di tre fondi sovrani mediorientali. Comcast/NBCUniversal ha studiato a lungo una soluzione centrata sulle sinergie fra Universal, Peacock e l’asset Warner/HBO. Netflix è entrata in partita più tardi, ma con una strategia chirurgica – puntare solo su studios e streaming – e un’offerta più alta e più liquida delle rivali. Messa all’angolo, Paramount ha accusato WBD di aver “inquinato” il processo di vendita, sostenendo che il management e il board propendano per Netflix non solo per ragioni di prezzo, ma per interessi personali legati ai futuri ruoli post–operazione e per la convinzione che il gruppo troverebbe proprio in Netflix il miglior custode e valorizzatore possibile dei suoi asset.

Perché Netflix rompe il tabù sulle grandi acquisizioni

Per capire la portata della mossa, bisogna partire da un fatto psicologico: per anni Netflix ha coltivato un vero e proprio tabù sulle grandi acquisizioni. Ted Sarandos ha ripetuto più volte che l’azienda era more builder than buyer, “più costruttrice che compratrice”: invece di comprarsi gli studios storici, Netflix preferiva produrre in proprio, commissionare contenuti all’esterno e licenziare film e serie da chi quei cataloghi li possedeva da decenni. In altre parole, l’idea era che non servisse un grande acquisto per diventare il centro dell’ecosistema audiovisivo, bastava costruire un’offerta originale abbastanza forte.

Oggi quello schema non regge più. Netflix è già il principale servizio di streaming a pagamento al mondo, con centinaia di milioni di abbonati e margini di crescita sempre più stretti. Avendo saturato gran parte dei mercati possibili, la battaglia non si gioca più tanto sul numero di nuovi utenti, quanto sulla profondità del catalogo e sulla forza delle proprietà intellettuali (IP): franchise, saghe, sequel, spin-off, mondi espandibili in videogiochi, serie animate, prodotti derivati. È lì che si costruisce il vantaggio competitivo vero, quello che consente di alzare i prezzi senza perdere troppi abbonati e di tenere gli utenti dentro la piattaforma più a lungo.

(L-r) DANIEL RADCLIFFE as Harry Potter and RALPH FIENNES as Lord Voldemort in Warner Bros. Pictures’ fantasy adventure “HARRY POTTER AND THE DEATHLY HALLOWS – PART 2,” a Warner Bros. Pictures release.
(L-r) DANIEL RADCLIFFE as Harry Potter and RALPH FIENNES as Lord Voldemort in Warner Bros. Pictures’ fantasy adventure “HARRY POTTER AND THE DEATHLY HALLOWS – PART 2,” a Warner Bros. Pictures release.
(L-r) DANIEL RADCLIFFE as Harry Potter and RALPH FIENNES as Lord Voldemort in Warner Bros. Pictures’ fantasy adventure “HARRY POTTER AND THE DEATHLY HALLOWS – PART 2,” a Warner Bros. Pictures release. (Courtesy of Warner Bros Pictures)

In questo quadro, la combinazione Warner + HBO appare come l’ultimo pezzo mancante del puzzle. Con un solo colpo Netflix metterebbe le mani su una library cinematografica che va da Casablanca e Il falcone maltese ai franchise contemporanei, su una library televisiva che comprende, tra gli altri, Friends e The Big Bang Theory, sull’universo dei supereroi DC (Batman, Superman, Wonder Woman) e sull’asse Harry Potter. Soprattutto, acquisirebbe il marchio HBO, che negli ultimi trent’anni è diventato sinonimo di serie “prestige”, di alta qualità autoriale, il sigillo che ha trasformato molte serie in eventi culturali prima ancora che prodotti di intrattenimento.

Non stupisce che diversi analisti statunitensi descrivano l’operazione come una scommessa da circa 70 miliardi di dollari per “chiudere la guerra dello streaming”: in un colpo solo, dicono, Netflix eliminerebbe un concorrente diretto, si comprerebbe un archivio storico di valore unico e rafforzerebbe in modo decisivo il proprio potere di determinare prezzi e condizioni sul mercato globale dei contenuti. Il rischio, visto da Hollywood, è che un soggetto con questa massa critica diventi il passaggio obbligato per chiunque voglia produrre o distribuire audiovisivo ad alta visibilità.

C’è poi un elemento più tecnico, ma decisivo: l’economia di scala e il gioco dei pacchetti. Molte analisi, dagli Stati Uniti all’India passando per l’Europa, convergono su un punto: l’obiettivo non è solo “avere più titoli”, ma poter offrire in un’unica tariffa un pacchetto che unisca Netflix e HBO Max (la piattaforma che in alcuni territori si chiama semplicemente Max). Per l’azienda significherebbe mantenere un ricavo medio per utente uguale o leggermente superiore all’attuale, ma con una percezione di “valore per il denaro” più alta da parte del cliente e, quindi, con un tasso di abbandono più basso. Per gli altri grandi gruppi – Disney, Amazon, il nuovo polo Paramount Skydance, Comcast con NBCUniversal – sarebbe un cambio di passo difficilmente eguagliabile: nessuno, da solo, potrebbe vantare una combinazione altrettanto potente di contenuti generalisti, marchi di prestigio e franchise globali sotto un unico tetto.

Le resistenze: antitrust, lobby creative, Europa

L’operazione, prima ancora di concretizzarsi, ha acceso una serie di allarmi che attraversano livelli diversi: regolatori, sindacali, industriali. Negli Stati Uniti, sul fronte antitrust, il deputato repubblicano Darrell Issa ha chiesto al Dipartimento di Giustizia – l’autorità che vigila anche sulla concorrenza – di trattare l’ipotesi Netflix–Warner come un caso di primissimo piano, alla stregua dei grandi dossier che negli anni hanno ridisegnato i confini del mercato americano. Il nodo, nelle sue parole, è duplice: da un lato la quota di mercato già molto rilevante di Netflix nello streaming a pagamento, dall’altro il controllo congiunto di due piattaforme “premium” – Netflix e HBO Max – che diventerebbero di fatto un unico polo per una larga fetta di contenuti ad alto valore aggiunto. Diverse ricostruzioni, filtrate sulla stampa economica, raccontano di un Dipartimento di Giustizia pronto a mettere l’operazione “sotto la lente”, paragonandola a una sorta di Ticketmaster che si comprasse il Madison Square Garden: il principale venditore di biglietti che diventa proprietario di uno dei templi dello spettacolo, cioè un soggetto che controlla allo stesso tempo l’accesso e il luogo in cui il contenuto viene fruito.

La reazione non arriva però solo dai regolatori. Un gruppo di produttori cinematografici ha inviato al Congresso una lettera – firmata in forma anonima, proprio per il timore di ritorsioni in un mercato dove Netflix è già un committente decisivo – in cui si parla apertamente del rischio di una “grave crisi economica e istituzionale di Hollywood”. Il timore è che un unico soggetto si ritrovi nella posizione di compratore e distributore dominante per un’enorme porzione di film e serie, con la capacità di dettare condizioni economiche e creative alla filiera. La Directors Guild of America, il sindacato dei registi, ha diffuso a sua volta una nota molto critica: rivendica la necessità di un’industria “vivace e competitiva”, dove vi sia reale concorrenza per talenti e progetti, e annuncia l’intenzione di aprire un confronto diretto con Netflix per capire quale impatto una fusione di questo tipo potrebbe avere sulle carriere e sui diritti dei registi e delle loro squadre di lavoro.

Sul fronte delle sale cinematografiche, l’allarme è ancora più esplicito. Cinema United – è l’associazione degli esercenti americani che fino a poco fa si chiamava National Association of Theatre Owners – parla di “minaccia senza precedenti per l’esercizio cinematografico globale”. L’associazione teme un calo strutturale del numero di film destinati alla sala, finestre di sfruttamento sempre più brevi e un indebolimento dell’economia delle sale come “ancore” economiche delle comunità locali. Il punto chiave, per gli esercenti, è che il successo di Netflix finora è stato costruito sulla fruizione domestica, non sul grande schermo: la sala è stata usata più come leva di marketing, o come requisito indispensabile per accedere a premi e riconoscimenti, che come canale primario di sfruttamento dei film. L’idea di un Netflix proprietario di un grande studio tradizionale appare dunque, ai loro occhi, come un ossimoro pericoloso: il controllore della finestra domestica che decide anche la sorte dei film nati per la sala.

La piattaforma, dal canto suo, ha lasciato filtrare la promessa di mantenere un’ampia presenza in sala per i film Warner e di non “smontare” l’architettura distributiva dello studio, almeno nel breve periodo. Ma Cinema United fa notare che questo, nella migliore delle ipotesi, garantisce il rispetto degli obblighi contrattuali esistenti: non dice nulla sulle scelte future, sul numero di titoli che verranno effettivamente messi a disposizione degli esercenti e su come verrà modulato il listino nelle stagioni a venire.

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Infine, c’è l’Europa. Un gruppo di europarlamentari ha già chiesto alla Commissione europea di esaminare con grande attenzione qualsiasi ipotesi di acquisizione di Warner da parte di Netflix, mettendo al centro tre questioni: il rischio di eccessiva concentrazione nel mercato dello streaming, l’impatto sui produttori indipendenti europei – spesso legati a Warner e HBO da accordi di coproduzione e distribuzione – e la capacità di un soggetto così forte di spingere verso il basso i prezzi di licenza, cioè le cifre pagate alle società terze per l’utilizzo dei loro contenuti. In Italia, le cronache finanziarie (Il Sole 24 Ore – Radiocor) descrivono l’operazione come imminente e sottolineano come una simile concentrazione potrebbe ridisegnare gli equilibri anche per i broadcaster europei: emittenti generaliste e pay-tv che oggi dipendono dalle library Warner per film, serie e diritti a pagamento si ritroverebbero a rinegoziare con un soggetto unico, più grande, più lontano e molto meno bisognoso di loro per raggiungere il pubblico.

Le possibili ricadute per il settore cinema e per le sale

Se l’operazione dovesse passare il vaglio dei regolatori, il sistema americano si ritroverebbe con un numero ancora più ristretto di player dominanti. Da una parte un gigante che unisce Netflix, Warner Bros. e HBO; dall’altra un gruppo come Disney che tiene insieme marchi come Marvel, Lucasfilm, 20th Century, la piattaforma Hulu e il colosso sportivo ESPN; poi il nuovo soggetto Paramount Skydance, nato dalla fusione fra lo storico studio Paramount e la società di produzione di David Ellison; il blocco Comcast / NBCUniversal / Sky; infine i due grandi gruppi tecnologici, Amazon (che ha incorporato MGM) e Apple, sempre più presenti nel campo dell’audiovisivo. In pratica, la quasi totalità delle grandi proprietà intellettuali globali – supereroi, saghe fantasy, animazione di punta – finirebbe concentrata nelle mani di quattro o cinque conglomerati. Questo significa un potere contrattuale ancora più forte nei confronti dei talent e dei sindacati, una maggiore capacità di imporre condizioni economiche a sale ed emittenti e un rischio crescente di omologazione dei cosiddetti titoli “portanti”, quei film-evento su cui intere stagioni produttive vengono costruite.

Dentro questo quadro, il nodo della sala diventa ancora più delicato. Warner è uno studio cresciuto storicamente sul modello theatrical: l’intera macchina industriale è pensata per le finestre di sfruttamento, le prevendite territoriali, i rapporti strutturati con i circuiti di esercizio. Netflix, al contrario, nasce e si sviluppa come servizio “direct-to-consumer”, cioè un’offerta che arriva direttamente al consumatore attraverso lo streaming, con la sala usata finora in modo sporadico, per ragioni di visibilità o di eleggibilità ai premi, più che come canale centrale di ricavo.

Se i due mondi dovessero fondersi, lo scenario più realistico è quello di una “convivenza conflittuale”. I grandi blockbuster legati ai marchi DC, all’universo Harry Potter e alle saghe globali continuerebbero probabilmente a uscire in sala in tutto il mondo, con finestre ancora significative. Una parte consistente delle produzioni di fascia media – quei film che oggi faticano ma esistono ancora nel calendario degli esercenti – rischierebbe invece di spostarsi direttamente sulla piattaforma, magari con uscite limitate solo allo scopo di rispettare i requisiti dei festival o dei premi. La distanza di trattamento tra i titoli “evento” e il resto dell’offerta si amplierebbe ulteriormente, con una sala sempre più legata ai grandi brand e sempre meno alimentata da un flusso regolare di film medi, indispensabili per tenere vivo il rapporto con il pubblico durante tutto l’anno.

Per chi gestisce le sale, questo si traduce in diversi rischi concreti: meno titoli di fascia media a riempire il calendario, una maggiore vulnerabilità agli “anni bui” in cui due o tre franchise non raggiungono le aspettative, la necessità di reinventarsi come spazi culturali polifunzionali, integrando rassegne, eventi, contenuti alternativi per compensare la dipendenza dai pochi grandi lanci hollywoodiani.

C’è infine un aspetto taciuto ma non meno importante: il potere di fuoco di Netflix sui prezzi “a valle” della filiera. Se la piattaforma dovesse controllare la library HBO, una porzione rilevante del catalogo Warner e, al tempo stesso, restare il principale servizio di streaming globale, avrebbe la forza per imporre condizioni più dure nelle trattative con le televisioni a pagamento locali, con le emittenti in chiaro che cercano seconde o terze finestre per film e serie, e con le piattaforme concorrenti che ospitano contenuti Warner in licenza. Gli altri studi e i produttori indipendenti temono una compressione dei valori di licensing, cioè dei corrispettivi pagati per l’utilizzo dei contenuti, con effetti a catena sul modo in cui si finanziano i film. Se le pre-vendite future valgono meno, diventa più difficile costruire piani finanziari complessi, e la tentazione di appoggiarsi a uno dei pochi grandi poli rimasti si fa ancora più forte, alimentando il circolo vizioso della concentrazione.

Il destino di Warner Bros. (e di HBO) dentro Netflix

Su che cosa diventerebbe davvero Warner dentro Netflix siamo, inevitabilmente, nel campo delle ipotesi. Ma alcune linee si intravedono già nelle indiscrezioni raccolte dal Financial Times e da altri quotidiani economici. L’argomento che avrebbe convinto David Zaslav, amministratore delegato di Warner Bros. Discovery, sarebbe la promessa di una “ampia autonomia operativa” per la nuova Warner all’interno del gruppo Netflix. Tradotto dal gergo delle fusioni: è verosimile una soluzione in cui lo studio continui a presentarsi al mondo come “Warner Bros. Studios” con un’aggiunta discreta del tipo “una società del gruppo Netflix”, marchio intatto e management in larga misura confermato. HBO, a sua volta, potrebbe diventare un sotto-marchio di prestigio all’interno del macro-ecosistema Netflix, con una sezione dedicata nell’interfaccia e una cura particolare per il posizionamento, quasi fosse una “camera nobile” nel palazzo della piattaforma.

Proprio HBO è il punto in cui la frizione rischia di essere più culturale che finanziaria. Il canale via cavo nato con l’idea di “non essere la tv di tutti, ma la tv di chi cerca il meglio” rappresenta da decenni una forma di curatela forte: pochi titoli, selezionati, alto investimento creativo e produttivo, la logica del “meno è più”. Netflix ha costruito il proprio successo su un modello opposto: ampiezza di catalogo, algoritmi che guidano le raccomandazioni, test continui su formati e generi. L’innesto di HBO in questo contesto solleva due rischi evidenti: da un lato la tentazione di aumentare il volume delle produzioni a scapito della selettività, dall’altro la possibilità che una parte dei talent tradizionalmente legati a HBO si orienti verso concorrenti percepiti come più “amici degli autori”, dalle divisioni originali di Apple alle realtà indipendenti come A24, passando per quelle mini-major che hanno costruito la propria identità proprio in contrapposizione ai grandi conglomerati.

Un capitolo a parte riguarda i grandi universi narrativi. Se l’operazione dovesse andare in porto, DC Studios diventerebbe l’arma con cui Netflix può entrare davvero nel “campionato dei supereroi” al fianco di Marvel, oggi saldamente in casa Disney. L’asse Harry Potter – film, future serie, spin-off, giochi – è una miniera di sfruttamento multipiattaforma quasi perfetta per il modello Netflix, che vive di serializzazione, espansione di mondi narrativi, possibilità di trasformare un marchio in un ecosistema di contenuti e prodotti. La vera domanda, a quel punto, non sarà solo quante storie in più si potranno raccontare, ma quanto Netflix sarà disposta a investire in produzione e in marketing per le uscite in sala, rispetto a ciò che considera il proprio obiettivo principale: massimizzare il ritorno misurabile sulla piattaforma, in termini di abbonati, tempo di visione, capacità di differenziare i piani tariffari.

Sul fondo resta il “pezzo vecchio” del gruppo, destinato a seguire un’altra traiettoria: i canali lineari – CNN, TNT, TBS, i canali factual di Discovery – che resterebbero in un’entità separata, spesso descritta dagli analisti con l’immagine del “ghiacciolo che si scioglie”: attività in declino strutturale, ma ancora capaci di generare cassa nell’immediato. Per questo blocco si possono immaginare diversi esiti: una vendita a operatori delle telecomunicazioni o a fondi di investimento, una gestione lenta e prudente “a esaurimento”, oppure un nuovo giro di consolidamento con altri bouquet via cavo alla ricerca di massa critica. In ogni caso, rispetto al racconto principale – la fusione tra la più grande piattaforma globale e uno dei maggiori studios della storia di Hollywood – rischia di essere il retrobottega di un’operazione pensata soprattutto per il futuro digitale dell’industria.

Chi sono oggi i colossi audiovisivi (e che cosa prefigurano)

Se si allarga lo sguardo oltre la singola operazione, il quadro che emerge è quello di un sistema globale che tende a organizzarsi attorno a pochissimi poli. Se il matrimonio tra Netflix, Warner e HBO dovesse andare in porto, ci troveremmo di fronte al primo vero “super-aggregatore” mondiale di streaming a pagamento: una piattaforma che combina una libreria hollywoodiana storica con grandi proprietà intellettuali contemporanee, una macchina di produzione originale imponente e una distribuzione diretta in quasi tutti i Paesi del mondo. In un solo soggetto si concentrerebbero, contemporaneamente, funzioni che per decenni erano tenute separate: studio di produzione, distributore internazionale, archivio e punto vendita finale verso il pubblico.

Accanto a questo blocco, l’altro grande polo è Disney, che non è più da tempo soltanto sinonimo di Disney+ o Hulu, le sue piattaforme di streaming, ma di un ecosistema integrato: cinema, parchi a tema, canali televisivi, merchandising, sport attraverso ESPN. Qui la strategia è diversa: la forza non sta solo nella quantità o nella qualità dei contenuti, ma nella capacità di monetizzarli lungo più assi, fisici e digitali, in una logica di sfruttamento totale del marchio e dei personaggi.

Meno appariscente ma strutturalmente decisivo, soprattutto per l’Europa, è il blocco Comcast / NBCUniversal / Sky. In questo caso il gruppo tiene insieme Universal Pictures, le fabbriche d’animazione Illumination e DreamWorks, la pay-tv di Sky nei diversi Paesi europei e la piattaforma Peacock. È il modello “ibrido” tra la vecchia televisione a pagamento e i servizi cosiddetti “over the top” – cioè distribuiti via internet, al di sopra della rete tradizionale – con un piede ancora solido nella distribuzione lineare e l’altro nel video on demand.

Sul versante Paramount Skydance, il disegno è quello di trasformare uno studio classico in una vera e propria impresa “tech-media”, che affianca alla produzione audiovisiva investimenti importanti in tecnologia, videogiochi, contenuti per piattaforme multiple. Il nuovo soggetto nato dalla fusione mette insieme la rete CBS, Paramount Pictures, il servizio Paramount+, la piattaforma gratuita Pluto TV e franchise come Mission: Impossible, Transformers, Top Gun. Ma se Warner dovesse finire in orbita Netflix, questo gruppo perderebbe un potenziale alleato nella corsa e si troverebbe a fare i conti con un concorrente ancora più ingombrante.

Poi ci sono i colossi tecnologici puri, Amazon e Apple, che giocano una partita diversa. Per Amazon, Prime Video è soprattutto il collante dell’intero ecosistema di commercio elettronico e servizi: un beneficio incluso nell’abbonamento che deve rendere più attrattivo il pacchetto complessivo. Per Apple, Apple TV+ è più vetrina per il marchio e per i dispositivi che business autonomo: un modo per comunicare identità, prestigio, estetica, dentro una strategia che ha al centro hardware, servizi cloud e sistema operativo. In entrambi i casi, l’audiovisivo funziona da servizio ancillare a piattaforme più ampie, non come fine in sé.

Il resto del mondo non è però un semplice spettatore. I grandi player regionali – dalla joint venture Reliance–Viacom18 in India alle piattaforme cinesi come Tencent Video e iQIYI, da U-Next in Giappone a Canal+, Sky e RTL in Europa – dimostrano che esistono ancora spazi di sovranità locale. Molti di questi operatori hanno accordi di alleanza, coproduzione o distribuzione con Warner, HBO, Nickelodeon e altri marchi statunitensi. Qualunque cambiamento di controllo su Warner obbligherebbe a rinegoziare diritti, finestre di sfruttamento, pacchetti di contenuti, con effetti a catena sui palinsesti e sui modelli di business nazionali.

Nel complesso, il panorama che si disegna è quello di pochi poli globali che concentrano proprietà intellettuali, capacità finanziaria e accesso diretto al pubblico, circondati da una costellazione di attori nazionali o regionali che vivono sempre più di licenze, coproduzioni e alleanze difensive. In questo scenario, ogni grande operazione di concentrazione – come quella che oggi vede al centro Netflix, Warner e HBO – non è solo un riassetto societario, ma un passo ulteriore verso un oligopolio dell’immaginario audiovisivo.

Tre scenari e una domanda

Se l’operazione dovesse essere approvata, sarebbe realistico aspettarsi un via libera accompagnato da rimedi robusti. Le autorità antitrust potrebbero imporre a Netflix un numero minimo di uscite in sala per i film Warner, obblighi di concessione in licenza verso terzi per parte del catalogo e magari la cessione di alcune porzioni di library, proprio per evitare che un unico soggetto controlli in esclusiva troppa offerta “premium”. In questo scenario nascerebbe comunque il blocco Netflix–Warner–HBO, destinato a diventare il punto di riferimento globale dell’intrattenimento di fascia alta. Per il cinema significherebbe una sala ancora più dipendente dai grandi franchise e dai marchi forti, mentre il cinema indipendente verrebbe spinto sempre più verso festival, circuiti d’essai e piattaforme alternative come luoghi privilegiati di visibilità e tenitura.

All’estremo opposto c’è l’ipotesi di un’operazione bocciata o “uccisa” dall’antitrust. In quel caso, Netflix si impegnerebbe a versare a Warner Bros. Discovery una penale (break-up fee) stimata in 5 miliardi di dollari e Warner Bros. Discovery tornerebbe formalmente sul mercato. Paramount Skydance e Comcast rientrerebbero in gioco, inaugurando una seconda stagione di fusioni e acquisizioni: forse meno spettacolari, ma comunque orientate a una forte concentrazione, con possibili combinazioni tra gruppi di “seconda fascia” alla ricerca di massa critica sufficiente per resistere alla pressione dei giganti.

C’è infine una terza via, quella di un’operazione rinegoziata in forma attenuata. Netflix potrebbe accontentarsi di una parte degli asset – per esempio una quota minoritaria con governance condivisa, oppure il solo perimetro HBO Max senza il controllo pieno degli studios – lasciando a Warner una maggiore autonomia operativa e identitaria. Anche in questo caso, però, il segnale al mercato sarebbe lo stesso: la lunga stagione dei conglomerati generalisti, nati per tenere insieme tv lineare, studio, canali tematici e via cavo, volge al termine. Al suo posto si afferma un’epoca dominata da mega-aggregatori digitali e da società-archivio: soggetti che custodiscono proprietà intellettuali e librery e le vendono, in forma più o meno esclusiva, a un mosaico di piattaforme globali.

Non si torna indietro

Per concludere, questa possibile, probabile, acquisizione non sarà solo l’ennesima fusione hollywoodiana da aggiungere all’elenco: è la prima volta infatti che il principale servizio di streaming globale tenta di comprarsi un grande studio storico e, insieme, il marchio che ha ridefinito l’idea stessa di serie di qualità, HBO. È il punto di contatto – o di collisione – fra due logiche opposte: quella delle major costruite su film, finestre di sfruttamento e rapporti con le sale, e quella delle piattaforme nate per arrivare dritte al divano di casa.

Per il cinema, la posta in gioco è alta. Meno pluralità industriale ai vertici della filiera significa meno centri decisionali, meno linee editoriali autonome, meno concorrenza reale per storie e talent. Un potere contrattuale enorme, concentrato in pochissime mani, può tradursi in condizioni economiche più rigide per autori, produttori, esercenti. L’avvento definitivo di un ecosistema dove la sala rischia di trasformarsi sempre più in vetrina di pochi brand globali, mentre tutto ciò che sta in mezzo – il cinema di fascia media, il contenuto originale, il rischio creativo – scivola verso lo streaming o verso nicchie alternative, festival, circuiti specializzati.

Per Warner Bros., paradossalmente, l’abbraccio di Netflix potrebbe costituire la sua salvezza: meglio diventare il motore interno di una macchina gigantesca che affondare nel mare dei debiti e dei canali via cavo in declino. Ma è una salvezza che sposta il centro di gravità: non più i terreni di Burbank e le anteprime a Hollywood, bensì l’interfaccia di una piattaforma globale, l’algoritmo che decide cosa spingere, cosa nascondere, cosa trasformare.

E se il cuore di uno dei grandi studi della storia del cinema si ritrova a battere dentro il corpo di una piattaforma, chi deciderà, domani, che cos’è davvero “cinema”?