È morto prima l’uomo o la gallina? Un pulcino nero, che però non è Calimero, se ne fugge da un allevamento e dal destino di pollo in batteria, e trova rifugio in un fatiscente ristorante greco, dove scopre il proprio sesso e quello con due aitanti galli, lotta per difendere le proprie uova fecondate ed è testimone, per rimanere in tema animale, dell’homo homini lupus. Dice il regista magiaro György Pálfi, “usando i meccanismi di base della tragedia greca antica, il mio film tratta un problema universale: un individuo può essere assolto dalla responsabilità morale se è solo spettatore passivo di un evento?”.

In Concorso alla XX Festa del Cinema di Roma, è Hen, apologo volatile, e non solo per il pennuto protagonista, delle miserie e violenze umane e, ovvio, animali.

Esopo non è della partita, Hen non favoleggia, piuttosto associa drammaticamente alla gallina lo stato dell’arte bipede, contemplando migrazione e traffico di esseri umani: non tutto fila liscio, nel senso che le convergenze parallele sono un po’ coatte, un tot forzose.
Il classe 74 Pálfi ha una bella idea, eppur non nuova: Galline in fuga, Babe maialino coraggioso e che più ne ha, una regia modesta, una drammaturgia un po’ stracca, ma qualche guizzo ironico e subromantico per le copule della gallina e qualche contrappunto straniante della stessa in chiave slapstick.
Si trova a dover fronteggiare due problemi, senza venirne a capo: la durata di 96’ è un autodafé, o se preferite uno spiedo; la gallina, qualsiasi gallina, non ha l’empatia né la pucciosità né la ferinità per destare e vieppiù mantenere il nostro interesse.

Spiace, ma è meglio da mangiare che da vedere.