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Hamnet - Nel nome del figlio
C'è un momento rivelatore e sconvolgente in Hamnet, che sembra intrappolare per un istante non solo il trapasso del bimbetto eponimo, ma anche il senso più profondo di un'opera costantemente in bilico tra la magia della vita e l'immanenza della morte: nel chiaroscuro di una foresta dipinta sullo sfondo si muove quest'anima innocente, confusa, in bilico appunto tra il restare e l'andare via per sempre.
Dopo la dimenticabile parentesi di Eternals, la regista premio Oscar (per Nomadland) Chloé Zhao realizza un film di rara potenza, fisica ed emotiva, che – proprio come il romanzo omonimo di partenza (il bestseller firmato Maggie O'Farrell, 2020) – mostra le stimmate del grande classico: Hamnet - Nel nome del figlio (già trionfatore a Toronto, ora alla Festa di Roma, tra qualche mese sicuro frontrunner per l'Awards Season, e sì, la domanda sul perché alla Mostra di Venezia abbia marcato visita, considerando oltretutto che la regista vantava già un Leone d'Oro, ce la faremo per molto tempo) ci riporta nelle campagne inglesi di fine XVI secolo.
E parte come il più consueto dei period drama di matrice romantica: lui è il figlio di un guantaio che per ripagare i debiti paterni va a insegnare il latino ai ragazzini di una casa immersa nel bosco, lei la figliastra più grande di quella famiglia, che vive a stretto contatto con la natura e condivide le giornate con un falco ammaestrato. L'amore tra i due è repentino, lei resta incinta. Si sposano, avranno tre figli, la primogenita Susannah e i due inseparabili gemelli, la cagionevole Judith e il maschietto, Hamnet appunto. Nome che per l'epoca era una variante ortografica di Hamlet…


Superando la tediosa questione della presunta veridicità (o meno) delle infinite e mai complete fonti bibliografiche relative agli aspetti biografici di William Shaskespeare (i figli comunque quelli erano, e Hamnet morì davvero a 11 anni) è impossibile non lasciarsi sopraffare da un film come questo, dal quale è proibitivo tentare qualsiasi tipo di fuga: Chloé Zhao mischia etereo e materico, lirismo e respingente, trovando nelle performance dei suoi due protagonisti, Jessie Buckley e Paul Mescal, la forza prorompente del mélo tragico e sanguigno. Che regala momenti altissimi (la sepoltura del falco, il gioco di scambi tra i gemelli, l'incrocio di sguardi nel finale) e innumerevoli spunti, tanto da farne forse l'opera cinematografica più interessante – e sono tante, forse troppe – incentrata sul più grande drammaturgo della cultura occidentale (e se Shakespeare in Love vinse 7 Oscar questo dovrebbe portarsene a casa almeno il doppio).
Intanto perché è insistendo sulla sua assenza (non a caso il suo nome verrà fatto solamente a fine racconto) e sulla quotidianità dei suoi affetti più cari (di fatto, la protagonista del film è Jessie Buckley e l’elemento misterico che avvolge il suo personaggio, “nata da una strega in una foresta”, ne amplifica il fascino ancestrale) che in maniera quasi miracolosa il film ne sa restituire una sagoma complessa e dilaniata (“Il posto che hai nella testa per te è più vero di qualsiasi altro luogo”), in seconda battuta perché in quell'assenza va rintracciata la disperazione di una distanza che sarà forse colmata solo vestendo i panni del padre-spettro in dialogo col giovane Hamlet, su quel palcoscenico, con la foresta dipinta sullo sfondo, incontrando furtivamente e nuovamente gli occhi dell'amata Agnes/Anne.


Proprio lì, all’apice della “rappresentazione”, la vita (che letteralmente spinge con quella folla ai piedi della scena), la letteratura, il teatro e il cinema si fondono in un istante che deborda, contrappuntato dalla ormai abusata (ma sempre dilaniante) On the Nature of Daylight di Max Richter, che firma la colonna sonora del film.
Un istante dove forse, ancora una volta, proprio come ha fatto il piccolo Hamnet con il suo sacrificio fraterno, si può pensare per un attimo di ingannare la morte. O scendere a patti con essa.
"Il resto è silenzio".