Ha un obiettivo preciso, 
  Fuochi d’artificio, seconda esperienza seriale di Susanna Nicchiarelli dopo cinque lungometraggi per il cinema e lo sfortunato fantasy
   
  
   Luna nera, e soprattutto ambizioso nella sua limpidezza: parlare della Resistenza al pubblico più ampio e trasversale possibile, raccontando una vicenda esemplare attraverso lo schema del coming of age. Ed è quasi impressionante che lo faccia su Rai 1 (e RaiPlay, a futura memoria) in una stagione nera per l’antifascismo, 
  
 che sia la proposta del servizio pubblico in occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione.
 
 
  
   All’origine c’è l’omonimo libro di Andrea Bouchard: è il 1944, sulle Alpi piemontesi si sogna la fine della guerra, quattro amici scoprono per caso che la loro età (tra i dodici e i tredici anni) consente di evitare sospetti e perquisizioni e decidono di aiutare in segreto i partigiani, assumendo così l’identità del fantomatico Sandokan (scelta evocativa: fu il nome di battaglia di Romano Magnaldi, caduto diciassettenne in Liguria, e anche quello del “protagonista” del canto partigiano di 
   
    C’eravamo tanto amati).
   
  
 
 
 
  
   
    La vocazione è nitidamente popolare, una specie di aggiornamento della tradizione nazionale della tv dei ragazzi, e la regista si mette felicemente ad altezza di spettatore (ideale), rivelando un’empatia in cui riaffiora la tenerezza di 
    
     Cosmonauta e lo spirito di 
     
      Chiara (ogni racconto giovanile deve essere ribelle e corsaro, altrimenti non è).
     
    
   
  
 
 
 
  
   
    
     
      Ci riesce con una costellazione di riferimenti che celebra la necessità formativa dell’avventura come in Mark Twain e 
      Stand By Me (gli amici che avevi a dodici anni non torneranno più)
     
    
   
  
 
  
   
    
     
      , mette al centro la grammatica della fantasia di Gianni Rodari attraverso il sentimento spielberghiano dei
      
       
         
        Goonies.
       
      
     
    
   
  
 
 
 
  
   
    
     
      
       
        Una mappa astrale dove brilla l’incanto della natura (l’apparizione del lupo) e della scoperta (gli esperimenti chimici), i primi turbamenti romantici e il rapporto con i nonni (Bebo Storti fiero antifascista e Carla Signoris che cima i fagiolini singhiozzando), e un finale che fa pensare a una frase di Francesco Guccini (“Dopo la guerra c’era una voglia di ballare che faceva luce”).