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C’è qualcosa di nuovo oggi nello spazio, anzi d’antico. Elio arriva da lontano, dalle manie intergalattiche dei baby boomer cresciuti nella guerra fredda alla passione per la fantascienza che ha plasmato l’immaginario dei registi newhollywoodiani. E cerca di sintonizzarsi sul presente post-pandemico, sulla malinconia dei bambini che alzano gli occhi al cielo cercando quel che non trovano sulla terra: un senso di appartenenza, la possibilità di un sogno, la ricerca della felicità.
Non è un caso che, in quest’avventura tipicamente disneyana nel suo essere contemporanea ma non cronachistica, ci sia l’omaggio ai radioamatori, ovvero coloro che, con competenza e dedizione, hanno contribuito a mettere in comunicazione mondi lontani. È anche uno sguardo al passato, a una sorta di golden age di quell’America più curiosa e meno diffidente che oggi sembra rivivere solo come superficie del conservatorismo nostalgico, come se tutto ciò che ha reso davvero grande il popolo più meticcio del mondo non risieda affatto nella propaganda della galassia Maga.
Sono tracce politiche che si vedono in controluce ma neanche troppo in quest’avventura creata da un autore messicano (Adrian Molina, co-regista di Coco), poi passata nelle mani di una canadese di origini cinesi (Domee Shi, già autrice di Red) e di un’americana (Madeline Sharafian) per volere di Pete Docter. Che è anche l’ultimo filmmaker della Pixar ad aver diretto delle storie originali capaci di imporsi davvero nell’immaginario collettivo (un titolo per tutti: Inside Out). Perché, ecco, il vero problema di Elio non è Elio ma lo Studio dell’universo Disney che sembra non avere molta fiducia nelle storie originali.


Sebbene, come detto, arrivi da lontano, da una tradizione culturale che da sempre caratterizza il cinema americano, Elio nasce anche come proiezione della sensibilità di Molina, con il racconto della solitudine di un bambino che sente di non appartenere a nulla: i genitori sono morti, la zia affidataria è indaffarata, i coetanei sono bulli, gli amici scarseggiano. Gli alieni sono una metafora, va da sé, e lo spazio è l’ultima speranza per chi non si sente “a casa”.
Tutte queste tensioni emotive convergono nell’avventura vera e propria, dove ogni elemento ha una consistenza simbolica nel percorso formativo: l’arrivo improvviso quanto entusiasmante nel Comuniverso, organizzazione interplanetaria con rappresentanti di galassie lontane che per errore riconosce il bambino come “ambasciatore della Terra”; il tentativo di trattare a livello diplomatico con un popolo alieno costantemente dedito alla guerra; l’incontro con un altro “bambino” che sembra avere esigenze e bisogni simili a quelli di Elio.
È evidente che la storia si ponga come una celebrazione della tolleranza, dell’accoglienza, della diversità come valori fondanti in una società che invece non fa altro che dividerci, separarci e metterci contro gli uni e con gli altri. Eppure è come se Elio non credesse fino in fondo a questo discorso profondamente politico che spunta in continuazione, quasi seguendo alla lettera l’indicazione di Bob Iger, il CEO della Disney a cui si deve l’acquisizione della Pixar, contro la presunta “ideologia woke” che avrebbe determinato i tiepidi riscontri delle ultime produzioni e l’allontanamento del pubblico generalista.


Se il Pixar Elemental è stato venduto come storia d’amore benché fosse un’allegoria sulle comunità marginali e Strange World non ha goduto di una vera promozione perché con personaggi LGBTQ+, così Elio finisce per essere soprattutto una gradevole operazione nostalgica in cui i temi più interessanti passano in secondo piano. Emerge l’omaggio ai grandi film del passato, in primis il sempre sia lodato Steven Spielberg (E.T. è più di una citazione), e a una certa idea della grande madre americana che difende e protegge il mondo e la famiglia. Come se l’unico original possibile per questo Studio – e per questo cinema condannatosi all’eterno ritorno dell’uguale, dei sequel e dei remake – sia un aggiornamento (una rimasticatura?) del già visto, del già noto, del già amato.
Si rimarcano di meno le origini latine di Elio e della zia (doppiata in originale da Zoe Saldana, in italiano da Alessandra Mastronardi), lo spirito solidale e tollerante del Comuniverso (una sorta di ONU che sovrintende la concordia intergalattica), l’amicizia tra il protagonista e l’alieno Glordon, il ripudio della guerra da parte di un popolo fondato sulla guerra. Intendiamoci: le storie didascaliche piacciono alle persone senza fantasia e sottolineare quel che le immagini dicono è l’esercizio di chi non ha fiducia in quelle immagini.
Ma Elio – che è tenero, piacevole, avvincente – è più forte e meno timido delle paure di chi l’ha prodotto e sostenuto, come altri titoli meno fortunati nella ricezione del momento, dal bellissimo Luca a Red (entrambi evidentemente “metaforici” sul tema della crescita e dell’accettazione di sé): storie che trascendono il posizionamento ideologico e il vento politico, interrogando le paure e i desideri dei piccoli di ieri e degli adulti di domani.