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Elena del Ghetto
Il 16 ottobre 1943, 1259 persone, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine, quasi tutti appartenenti alla comunità ebraica romana, furono arrestate dalle truppe naziste con la collaborazione dei fascisti. È l’evento passato alla storia come il rastrellamento del ghetto di Roma, che portò alla deportazione di 1023 rastrellati nel campo di sterminio di Auschwitz. Soltanto 16 di loro sopravvissero.
Il film inizia nella piovosa notte che precedette la retata, con una donna che corre per le strade del quartiere: si ferma in piazza a urlare e cerca di avvisare i suoi concittadini del pericolo imminente. Nessuno sembra crederle perché Elena Di Porto, cioè Elena del Ghetto, è, per tutti, “la matta del Ghetto”, una donna indisciplinata e impetuosa che ha lasciato il marito mollaccione, pratica il pugilato, porta i pantaloni, beve all’osteria, è un portento nel biliardo, mantiene i due figli lavorando come domestica. Dopo aver affrontato a viso aperto i fascisti che controllano il quartiere, viene internata in manicomio e, una volta entrata nella resistenza, mandata al confino.


Elena del Ghetto
Personaggio evidentemente larger than life – già rievocato dal libro La matta di piazza Giudia di Gaetano Petraglia da cui lo spettacolo teatrale Elena, la matta con Paola Minaccioni – che Stefano Casertano – all’esordio da regista, anche sceneggiatore con Francesca Della Ragione e Alessandra Kre – mette al centro di questo film, presentato in Grand Public alla XX Festa del Cinema di Roma.
Il film appartiene a Micaela Ramazzotti, lasciata a briglia sciolta e votata alla causa, che si lancia nel dialetto guidaico-romanesco e soffia sul ciuffo penzolante in fronte come una commediante americana. Tutti gli altri le ruotano attorno, dalla generosa cognata (Giulia Bevilacqua) allo stracciarolo innamorato (Marcello Maietta), senza tralasciare la padrona (Caterina De Angelis nel ruolo di una divetta di regime, tal Mariella Desideri) e il cupo fratello (Valerio Aprea).


Elena del Ghetto
La produzione Titanus, con lo scudo che volteggia sulle note del leggendario motivetto, porta in dote il ricordo del cinema che fu, ma l’omaggio a una figura laterale della nostra memoria – e della nostra coscienza, con tutto ciò che implica il tema del trattamento coercitivo subito dai non-allineati – non è all’altezza di un racconto popolare che ha il passo della televisione didattica.
Plausibile l’eredità di Luigi Magni, nel ritmo del fraseggio dialettale (c’è un musical sommerso che vorrebbe esplodere) e nell’inquadrare il destino del popolo oppresso dal potere, ma Elena del Ghetto è nobile negli intenti e ingenuo negli esiti, un po’ soffocato dalle sue stesse ambizioni, fa di necessità virtù (il budget non sembra straordinario per un period drama) senza riuscire a trovare un equilibrio tra la gravità del racconto e la leggerezza del passo, tra i bozzetti di quartiere e la grande storia, scoprendosi qua e là ridondante e artefatto (e non aiutano le musiche che sottolineano ogni passaggio).