Miguel vive da sempre a Fuerteventura. Ha un glorioso passato da lottatore, ma ormai ha quarantacinque anni, una figlia Mariana e una moglie morta da un anno. Da allora s’è rintanato con la roulette insieme alla sua adolescente, che lo segue nelle arene finché, durante una gara, aggredisce un’avversaria. Il ginocchio del padre, intanto, operato due volte, scricchiola di nuovo: entrambi, per motivi diversi, devono allontanarsi dalle competizioni.

Buona la seconda regia per José Ángel Alayón, apprezzato produttore e cortista spagnolo che porta in Concorso ad Alice nella città, dopo gli applausi al Festival di San Sebastian (sezione New Directors) un doppio coming of age low budget ambientato nelle isole spagnole

Austero eppure accorato, documentario e intimista, racconta la lotta canaria come liturgia e spirito identitario del luogo, adagiandosi sui suoi scenari aspri e incontaminati: una controcartolina delle immagini promozionali. 

Dance of the Living
Dance of the Living
Dance of the Living

Dance of the Living sa contenere la fascinazione e insieme il pungolo antropologico verso i combattimenti, la fatica, la preparazione i rituali che li caratterizzano: una lotta secolare, brutale ma corretta, tra il wrestling e il sumo, cui secoli addietro ricorrevano i locali per sedare conflitti personali. Abolita durante l’invasione castigliana per eccesso di violenza, negli ultimi anni è stata recuperata e valorizzata oggi come elemento identitario. 
”L’ho vista come una metafora della vita, della resistenza, dei conflitti intimi che tutti viviamo” ha dichiarato il regista. E non si fa fatica a credergli, dato che La lucha (questo l’appropriato titolo originale) rappresenta i lottatori come un microcosmo autosufficiente, capace di isolarsi dal resto e nutrirsi di uno sport che significa l’intera esistenza. Eppure il regista è capace di piegare tale piglio antropologico e sguardo affascinato alle regole della drammatizzazione: la lotta è anche e soprattutto quella tra padre-figlia, un rapporto simbiotico ed emulativo, ma provato dal lutto paralizzante, dalla perdita incolmabile, dall’assenza insanabile, dalla ribellione giovanile.

Ricorrendo in larga parte a non professionisti (lo stesso attore protagonista è lottatore, come tanti altri, fuori dal set) e sconfinando volentieri nel mockumentary, il canario Alayón lega la realtà alla sua biografia (fu un lottatore anche lui, da ragazzo) e preferisce al canonico wrestling movie un cinema soppesato e radiografico che vuole valorizzare il suo capitale intimista.

Trattasi in fondo di un cinema dialogato e famigliare, focalizzato sull’intimità familiare, matrimoniale, amicale e di come questa si esprima a partire da un’incomunicabilità profonda, da una limitazione imposta e improvvisa.

La cifra fisica ed energica di personaggi erculei ma fragili è resa dalla fotografia porosa e sgargiante di Mauro Herce capace di cucire in pellicola il particolare e il generale, il privato e il pubblico, i letti dove si stringono Miguel e Mariana, come le arene affolate e le praterie sterminate dell’isola.