La giovane Rafa studia animazione all’università, ma quando le rubano il portatile, non può più continuare a studiare, nè la famiglia può ricomprarlo nuovo: così la ragazza vende i capelli a un’amica, e con i soldi il padre ne compra uno usato. Il ricco fratello della proprietaria, però, li trova, lo reclama e li denuncia, mettendo in crisi (anche morale) una famiglia già sul lastrico.

L’iraniano Hesam Farahmand debutta alla regia con un’intossicante, irredento dramma sociale nell’Iran contemporaneo. Parte dalla commedia dei caratteri di partenza e la rovescia in tragedia a tinte kafkiane. Punta la cinepresa con merito e rabbia sui dislivelli sociali – l’impossibilità di accesso a beni ormai primari è il carburante tematico della storia – , sulla ricerca di autodeterminazione delle donne in un contesto opprimente, sull’ipocrisia e il cinismo che contagia tutto il Paese.

Niente di nuovo sotto il sole del miglior cinema iraniano, insomma, ma tutto pregevole per un film d’impianto corale che brilla per economia di mezzi e regia formalista: camera sempre fissa e movimenti di macchina centellinati a sostenere classica sceneggiatura di ferro, verbosa come da attese ma stratificata, d’impostazione tutta dialogica (la firma Mohammad Ali Hoseini).

Una narrazione che s’ispira al reale senza edulcorarlo, dove la parola svela l’assurdo che l’immagine allude, e che s’intorbidisce per complicazioni progressive, annettendo dettagli ed eventi in apparenza irrilevanti, in sostanza cruciali per sconfinare nel paradosso prima, nell’assurdo poi, e nella ferocia sanguinaria infine.

L’opera prima di  Farahmand conferma la disperata vitalità di un cinema, come quello iraniano, che facendosi testamento della quotidianità – in questo caso famigliare - sotto il regime ha ormai la qualità, senza magari averne l’ambizione, di fare scuola per euritmia tematica (questo film, per esempio, condivide il rovello morale di Un eroe) e economia stilistica.

Invidia sociale (il pc Apple qui assurto ad autentico status symbol), dislivelli di classe, polizia depensante, sessismo, ipocrisia, corruzione, ferocia, istinto di sopraffazione e quello di autoconservazione. C’è tutto questo nel debutto di Farahmand, come la resa sconsolata di fronte a una società che si guarda col coltello alla gola.

Eppure nella disperazione tragica finale, spunta e si coltiva una pietà che non cede al rancore. Anche questa, in fondo, si chiama speranza.