Cinque anni fa la madrilena Lucia Aleñar Iglesias presentò alla Semaine de la Critique cannense il cortometraggio del titolo, con il quale inquadrava un’adolescente che finiva per accettare le somiglianze prima somatiche comportamentali poi della nonna da poco defunta.

Per il debutto al lungometraggio cinque anni dopo, la regista trentaduenne riprende lo stesso humus narrativo e la trapianta in un’assolata estate maiorchina, una casa con vista mare, i nonni e due nipoti lì per godersi insieme le vacanze. 
Ma la spensieratezza di bagni, pedalate in bicicletta e primi baci salati per Cata è funestata dalla morte improvvisa della nonna. Della famiglia è l’unica che vi assiste, e che lentamente finirà per sostituirla nel suo ruolo familiare.

La regista continua a cesellare un cinema analitico, che è innanzitutto studio delle dinamiche relazionali in una famiglia borghese. Microcosmo autosufficiente e ingessato, vive di norme granitiche, imposte e accettate, regolate in silenzio e nell’inconscio da un padre padrone che relega a suoi nutrimenti narcististici i componenti femminili: il nonno lo .

All’interno di questa gabbia relazionale, Iglesias lega a doppio filo l’elaborazione del lutto alla definizione dell’identità, essiccando subito il più classico coming of age estivo con il germe della morte, della scomparsa, della ridefinizione o conferma degli equilibri di genere. 

Il cono di sguardo in cui immette una proiezione autobiografica è un’adolescente acuta, silenziosa e inquieta come Cata. Colta in un’età di transito, è chiamata d’improvviso a ridiscutere il suo ruolo famigliare, con uno scivolamento delle dinamiche di potere interpersonali che finisce per accettare tra inquietudine e malcelato godimento.

La incarna la semi-debuttante Zoe Stein, protagonista anche del cortometraggio d’origine, che infonde alla protagonista con grande naturalezza  un certo contegno e la fierezza mista a torbida scaltrezza. La regista spalleggiata dalla fotografia nitida di Agnès Piqué e dalla scenografia minimale di Gala Sergi le costruisce intorno uno spazio che è sempre estroflessione della sua interiorità, cesellando il paesaggio marino di presenze fumistiche, ai limiti dell’artificio (il gruppo di suore che fumare) e scomponendo sempre il campo visivo in un primo piano dedicato ai protagonisti, un secondo paesaggistico e/o architettonico che correli sempre il mondo interiore dei protagonisti.

Un film controllato e assolato, pregno di salsedine ma percorso da un’onnipresente senso di lutto e di inquietudine, in cui l’incandescenza del materiale emotivo è raffreddato da un costante, calibrato controllo formale di una regia che si pone a distanza di sicurezza delle sue creature: formalista, compassata (prevalgono camera fissa e lentissime zoomate) attenta a registrare le minime variazioni di una violenza domestica tanto insopportabile quanto accettata in silenzio, senza permettersi di giudicarla e condannarla.