Chissà cosa ne pensano Micheal Dante DiMartino e Bryan Konietzko, i due creatori originali della popolarissima animazione teen (in America e in Oriente), di questa serializzazione in live action appena rilasciata su Netflix. I due autori, in un primo tempo motori di un progetto da compiersi in tre stagioni (61 puntate complessive) hanno abbandonato il timone della serie in corsa, per le solite “divergenze produttive”, prima, però, di creare un nuovo sequel parallelo.

Eppure i fan stanno premiando il Dominatore dell’aria in carne ed ossa: stando a Variety, Avatar – La leggenda di Aang (no, Cameron e Pandora non c’entrano nulla con questo filone fantasy) è il titolo più visto su piattaforma dal 19 al 25 febbraio. Non solo, ma la serie ha sorpassato per visualizzazioni nella settimana di lancio One Piece, altro adattamento in live action di una serie animata su cui Netflix puntò nel 2023.

Sarà anche perché gli elementi narrativi che sostanziano questa stagione sono rimasti invariati rispetto all’animazione d’origine: i quattro registi per otto puntate (Goi, Raisani, Liang, Wikinson), dopo un cruento prologo da videogioco di ruolo, inquadrano il familiare mondo in quattro tribù, uno per elemento naturale: Acqua, Aria, Fuoco e Terra. Quattro popoli, com’è noto, che vivevano in armonia un tempo, e ora sono ai ferri corti, complice anche l’assenza centenaria di un Avatar, prescelto per essere il pacificatore.

Ecco, allora, che dopo un secolo di letargo glaciale il dodicenne, Aant, l’ultimo superstite dei dominatori dell’aria, si risveglia. La missione di cui lo incarica il maestro è rinnegata e accolta in una puntata: sedare le ribellioni del Fuoco, riunire i quattro popoli, restaurare la concordia perduta. Per la suprema impresa, però, non mancano gli oppositori: il signore del fuoco Sozin vuole debellare tutti gli airbender per assicurarsi il dominio del mondo. Ci si aggiunga anche che il principe diciassettenne principe Zuko (Dallas Liu), in cerca di gloria e riconoscimento paterno dal signore del fuoco Ozai pure è sulle tracce del piccolo combattente dal cranio rasato e freccia nera che si ferma tra le sopracciglia.

Eppure Aant può contare sul fido Appa, il pelosissimo bisonte volante pronto a trasvolarlo da un angolo all’altro del mondo insieme ai fratelli Katara e Zuko della tribù dell’Acqua del Sud. Le rotte narrative della serie, così, sono tracciate; viaggio dell’eroe, solo in apparenza però ad altezza di bambino, all’insegna di peripezie, lutti, battaglie serrate, sequestri, spiriti, fughe mirabolanti e rilasci imprevisti che punteggiano le prime otto stagioni della serie, fino al duello campale di chiusura. Preludio di un finale ovviamente aperto, come snodo morale ma anche narrativo per le stagioni future.

Non manca a questo primo di tre tempi pure una certa felicità di ritmo che lega e cadenza le avventure di Aang, Katara e Zuko, i tre piccoli picari. Ci si aggiungano gli sgargianti costumi fedeli ai toni del cartoon, con la dirompente sontuosità visiva della scenografia ed ecco che questo purissimo coming of age dai classici nodi fiabeschi – il protagonista prescelto giovanissimo, la missione come crescita personale, il mondo incantato, aiutanti e oppositori etc. - si conquista una sua credibilità estetica e contenutistica, in crescendo, sostanziando il romanzo di formazione con inserti, sempre più marcati nelle puntate successive, da acrobatico film di guerra, come suggeriva già il prologo.

L’ambizione del prodotto, così, è trasparente e (per ora) vincente: non solo incollare al divano i giovanissimi seguaci di Aant duplicando temi, personaggi e tavolozza del cartoon, ma far sedere accanto a loro anche le generazioni più adulte.