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Amata
L’universitaria fuorisede Nunzia (Tecla Insolia) partorisce una bambina non desirata. Tre aborti la negano a Maddalena (Miriam Leone), ingegnera edile sposata con il pianista Luca (Stefano Accorsi). La coppia ripiega sull’adozione, ma la legge garantisce dieci giorni alla madre per scegliere se tenere o no la bambina. Chi crescerà Margherita?
È l’indagine sulla maternità di Elisa Amoruso; un film intimista, doloroso, a tratti commiseratorio che dal realismo sociale trasmigra verso un doppio, travagliato romanzo di formazione, adombrando colpevolmente, però, i dislivelli di classe tra le due donne, autentico ostacolo verso un’incondizionata scelta della maternità.
Nunzia, figlia di pescivendoli siciliani, infatti, a Roma studia, balla e non lavora. Non ha risorse né tempo per un bambino. Un’intralcio da rimuovere (“io pensavo che sparisse” sussurra all’ostetrica), una responsabilità insostenibile, perfino un’onta. A diciannove anni abbandona l’appartamento vista Tevere con le amiche e si rifugia in periferia per una stanza da 200 euro (?) al mese.
Maddalena, invece, ne ha quaranta, sposata da dieci, ha visto il suo corpo negarglielo tre volte: per la procreazione assistita è troppo tardi, per l’adozione no. Due lauti stipendi, una carriera lanciata, un appartamento rifinito, una relazione in apparenza solida. Per la legge è la coppia ideale. Senza dimenticare l’anziana affittuaria di Nunzia che, per ricchezza, ha potuto far tante volte l’amore senza sposarsi. Insomma l’età adulta, il censo, la coppia, la casa, la stabilità affettivo-economica permettono la scelta; la gioventù, l’incertezza, lo sfruttamento, l’erranza apolide, l’indipendenza no.
Questo il film, però, in un Paese in sprofondo demografico, non lo dice a chiare lettere, lo sussurra appena, lo infila pure nell’inconscio dello spettatore. Preferisce, tuttavia, il dolorismo reiterato, il pedinamento lacrimoso in piano sequenza, lo status e non il casus quo, l’assillo dei dubbi e delle paure delle donne, arrivando a bordeggiare, così, il “melodramma sociale” (definizione di Emiliano Morreale).
Amoruso, di fatti, sfoglia l’omonimo romanzo di Bernardini (anche sceneggiatrice del film) e lo risciacqua nella cronaca: “il film prende spunto da un fatto accaduto a Milano: un neonato lasciato in una culla per la vita con una lettera struggente da parte della madre”. Sceglie la focalizzazione interna, condanna l’invadenza maternalista del personale sanitario (femminile!), non giudica, mostra empatia riserbo sensibilità e delicatezza per un tema così scivoloso e sfaccettato.
Eppure Amata nel formalismo stilistico (gli establishing shot d’apertura), nel montaggio parallelo reiterato s’impantana in una certa immediatezza simbolica (il finale certo, ma anche gli interni e abiti blu speranza per Maddalena, quelli beige/marroni per Nunzia fotografati da Omodei Zorini, scenografati da Sadun, cuciti Brunori), in archi temporali sconnessi, in più scene serenamente sforbiciabili, nella recitazione solo ringhiosa o passivo aggressiva del duo Accorsi-Leone (che torna sul set dopo il primo figlio incarnando una donna dalla maternità difficile).


In fondo convince solo Tecla Insolia, rampante stellina del cinemino nostro, capace di intestarsi con versatilità da veterana il romanzo di formazione e liberazione di una donna in cerca di auto e non eterodeterminazione. La ventiquattrenne conferma di saper già magistralmente affettare le battute, significare il corpo, sterzare i toni e variare inavvertitamente tutti i registri delle scene (ironico, drammatico, disperato, sperante, dubbioso etc.).
In attesa di altri copioni – magari commedie, eresia! – all’altezza del suo talento.