Conquistatore o sterminatore? Condottiero o sobillatore? Visionario o mitomane? Greco o persiano? Unificatore o distruttore di mondi? Uomo o semidio? Leggenda o personaggio storico?

La docu-serie Netflix Alessandro Magno – Come nasce una leggenda (sottotitolo tricolore che elide l’originale, britannico Making of A God) tiene aperte le porte del dubbio.

Scelta doverosa per non perdere la bussola quando si vogliono rincorrere le tracce del re bambino, figlio di Filippo II (o di Zeus?), che dal 336 a.C. in un pugno d’anni fu capace di unire, a cavallo del fido Bucefalo, la Macedonia alla Persia, la Grecia all’Egitto, l’Europa all’Asia, l’Oriente all’Occidente.

Un’impresa per sua stessa natura leggendaria, spropositata, intentata né prima né poi – per intenderci è un po’ come se la Svizzera invadesse e conquistasse l’Europa in sei anni – ma stroncata a Babilonia dalla morte all’età fatidica di trentatré anni che ne abortì l’ennesimo sogno di annessione dell’Arabia.

Sei agili puntate che, se titillano e non aggiungono nulla all’Alessandreide, comunque abbozzano con dovizia storiografica e archeologica una vita eccezionale, dai contorni ancora sfuggenti benché sostenuta da una messe formidabile (ma contraddittoria) di fonti (dal vessillifero Callistene, all’amico d’armi Tolomeo, fino agli storici Quinto Curzio Rufo, Plutarco e Giustino).

Dalla storia si sfocia nel mito, dalla saga amorosa e familiare all’epica guerresca per arrivare ai nuovissimi, emozionanti scavi nel sito di Alessandria d’Egitto condotti dall’archeologa Calliope Limneos-Papakosta.

Alessandro Magno, dunque o del vivere memorabile perché inafferrabile. I registi Ballantyne, Slee e Elliott inquadrano, come da attese e da tradizione, un personaggio infuso da un’aura mitica ed eroso da una sete intramontabile di gloria. Il mito (Ulisse, Achille, gli dei dell’Olimpo) come modello non da emulare, ma da superare; il mondo, dalla Grecia all’India, come campo (mai sufficiente) per attuare questa sfrenata, sanguinaria, eppure umanissima ambizione.

Elisa l’infanzia smaniosa e la formazione aristotelica, il sipario si alza su un ragazzo vent’enne, esiliato prima e incoronato poi re con il padre appena giustiziato al suo fianco. Sangue che, oltre il conflitto edipico (c’è lo zampino della madre nella morte di Filippo II?), nel segno di Achille e nell’agnizione divina, Alessandro spargerà per tutte le battaglie – nemmeno una sconfitta, riportano le succitate fonti -, per tutta l’Asia e i continenti, tra tutte le etnie annesse, amate e sterminate per spingersi sempre più in là, oltre il lecito e il pensabile (dagli dei e dalle mappe, da sovrani, soldati, generali, persino dai suoi sodali) fino alla fine del mondo: allora era l’Indo che venne inzuppato di lacrime dal re bambino, insensibile ai tormenti dei suoi soldati stremati perché furioso davanti allo sbarramento del conoscibile, al capolinea della sua smania di conquista.

Ne esce fuori un racconto a capitoli, va da sé, divo-centrico, vieppiù monodimensionale (domina la passione marziale del Magno, rimpiccioliscono quelle per la filosofia, la poesia, le arti, l’astronomia). Eppure, nella tessitura biografica, nel rimettere con merito la vicenda personale dentro le trame elleniche del IV secolo a.C., il doc discorre in modo piuttosto dovizioso e controllato; certo qualche pennellata rimane fuori dal quadro (l’aristotelismo e l’ecumenismo), ma la cavalcata è rispettosa delle fonti, sedotta dal mito, attratta dall’intimità tormentosa del guerriero, frastornata dalla leggenda (Achille come mentore e scudo; Zeus che lo benedice in visione; la fuga di Dario il Grande a Gaugamela; il pianto sul Gange; l’Egitto dei Faraoni; la Babilonia pensile come chimera, tomba e destino). 

La messe di professori americani intervistati, infatti, serve a questo: supporta, chiarisce, perfino idealizza i frangenti recitati. Segmenti di fiction che oscillano tra il dramma familiare e l’action bellico; frangenti piuttosto didascalici certo, tutti protesi alla scoperta della psiche del protagonista, e orfani forse, pur nello splatter, dell’epica marziale dell’Alexander di Stone: in effetti il controllato Buck Braithwaite nei panni del condottiero macedone ricalca con dovizia il Farrell melanconico e ferale del film del 2004.

Eppure la serie riesce dove Stone fallì: giustifica l’eccezionalità di Alessandro Magno dentro il suo contesto storico, ancorandola a quella Grecia che, al tramonto dell’epoca delle città-stato, iniziava a sporgersi sull’Asia, il più vasto impero allora conosciuto, eppure troppo piccolo per un re, faraone, imperatore bambino.