Il cameo che fa da scena finale a The Fabelmans di Steven Spielberg contiene incastonato in sé anche il senso di tutto il film. Quella che John Ford (interpretato da un formidabile David Lynch) impartisce al giovane Sammy Fabelman, alter ego di Spielberg, è una lezione di prospettiva, e insieme una lectio magistralis di cinema, e di più ancora, un vero e proprio insegnamento sulla vita e la sua narrazione.

Il giovane aspirante cineasta che balbettando risponde all’imperioso John Ford/Lynch descrivendogli la posizione dell’orizzonte in ciascuna delle affiches di film appese nella stanza, si sente spiegare dal maestro regista che tutto è questione di prospettiva. Ovvero, la regola aurea di un cinema capace di evitare la banalità di quanto troppo prevedibilmente possa schiacciarsi su un orizzonte esso stesso prevedibile perché in posizione mediana, troppo simmetrica, troppo al centro.

Vedere – e filmare, e narrare – è questione di sguardo, di focalizzazione sulla prospettiva, questione dunque di rapporto con l’orizzonte. Una teoria cui magistralmente lo stesso Spielberg obbedisce realizzando un film la cui distanza autobiografica – e narrativa – da sé stesso non è scontata, brilla per equilibrio ma anche per estro (non facile trovare in lui compiacimento di sé, piuttosto un mettersi continuamente in discussione, come quando scorrendo tra le dita la pellicola del suo primo filmino amatoriale il giovane Fabelman mormora scontento: “ma è tutto finto!”).

Già: moltissimo è questione di rapporto con l’orizzonte. Una tesi che trova recente conferma sia tematica che visiva in Triangle of Sadness di Ruben Östlund, un film il cui non solo l’orizzonte è sempre noiosamente fisso nella sua posizione “mediana”; anche, vicenda in cui con suo consueto sarcasmo Östlund esibisce il disagio di dinamiche relazionali sempre frontali, e una sostanziale assenza di complessità nel senso di mancanza di scavo, di quella messa in gioco che dovrebbe scaturire dall’incontro tra gli umani, e a quella sfidarli.

Frontale ma senza chiaroscuri la dinamica di coppia tra i due protagonisti, due giovani “vincenti” e iper-contemporanei secondo una cifra di spiazzante letteralità (lui modello, lei influencer, entrambi interiormente telecomandati da stessa ambizione livida e pochissimo smagliante). Asfittici anche tutti gli scambi a seguire, privi di orizzonte in nome di una trama appesantita da una componente esangue che guarda caso nella lunga seconda parte ambientata sul mare ha sullo sfondo un orizzonte fisso, mai “spostato” a sanamente complicare un po’ le cose, mai nella “messa in prospettiva” capace di dare a quelle stesse cose carne, sangue: vita.

Ruben Östlund sul set di Triangle of Sadness (credits: Fotograf Tobias Henriksson © Plattform Produktion)
Ruben Östlund sul set di Triangle of Sadness (credits: Fotograf Tobias Henriksson © Plattform Produktion)

Ruben Östlund sul set di Triangle of Sadness (credits: Fotograf Tobias Henriksson © Plattform Produktion)

Anche quando a naufragio avvenuto tutta la vicenda si sposta su un’isola sperduta e deserta, lì pure i tanti piani sequenza che includano l’orizzonte lo filmano a metà dell’immagine, una linea circolare ripetitiva, priva di contrasti che a loro volta significhino e portino messaggi. In assenza di scarti dalla fissità di quello stesso orizzonte, asfittico risulta tutto, compresa l’ossessione sul denaro, iper-contemporaneo leitmotiv dell’intero film. Così, al di là dei proclami anti-capitalisti del capitano della nave da crociera, l’orizzonte, per quanto ampio quando in mare aperto, resta piccolo, monotono in modo irrespirabile.

Mai una sbavatura nella geometria delle inquadrature, cieco ogni sentiero parallelo rispetto al tracciato rigido di una trama tutto sommato prevedibile nella sua claustrofobica progressione verso un mondo relazionale man mano più angusto, carente di ricambio di ossigeno. Non conta solamente che il mondo dei naufraghi si faccia crudele, addensato di giochi di potere a partire dalla necessità di sopravvivere; anche, gioca la monotonia con cui ogni cosa accade e si rivela secondo un rapporto che ricalca la linea dell’orizzonte, con una regolarità che non riesce però a scolpire nulla. Perché mancando lo scarto dall’orizzonte è la verità a venire a mancare: tutto si fa sopraffazione, reciproco utilizzo, bieca ricerca di soddisfazione di brame dietro le quali manca la spinta della reale voglia.

Sì, manca l’orizzonte, quello ampio, aperto, quello che circolare e irraggiungibile permette alla vita di succedere, alle persone attraverso i loro personaggi di diventare sé stesse, a un film di dipanare nodi e snodi che tocchino davvero, per come hanno saputo collocarsi sopra o sotto la linea del cielo, mai schiacciati nel mezzo. Proprio come John Ford insegnava al giovane Fabelman/Spielberg: dal rapporto stabilito con l’orizzonte scaturiscono sia l’interesse di un film, sia la densità di punto di vista di un talento.