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Lo squalo
“Chi mai potrà affrontarlo e restarne indenne? I suoi occhi sono come le palpebre dell'aurora. Dalla sua bocca escono vampate, sprizzano scintille di fuoco” (Giobbe 41, 1-21)
C’è un modo antico di descrivere il terrore, e non è attraverso la carne straziata, né attraverso la morte. È attraverso lo sguardo. Così il libro di Giobbe evoca il Leviatano: non solo per la sua forza, non solo per la sua bocca fiammeggiante, ma per gli occhi. “Come palpebre dell’aurora”: un’immagine di una bellezza crudele, dove il mostro appare per ciò che è davvero — un’apparizione, un segno, un punto di rottura nel mondo visibile. Anche il cinema nasce come aurora dello sguardo. È, in fondo, un’arte dell’occhio: occhi che guardano, occhi che vengono guardati, occhi che non restituiscono nulla.
E Lo squalo, film fondativo del cinema moderno, è una parabola sul potere dello sguardo e sulla sua assenza. Perché ciò che inquieta, ciò che ci perseguita da cinquant’anni, non è tanto la violenza dell’animale, quanto il suo occhio nero, opaco, insondabile. Un occhio che è pura superficie, che riflette la luce ma non la restituisce. Non guarda: occupa lo spazio dello sguardo. È lo specchio in cui il visibile si arresta.


Lo squalo
(Webphoto)Non è un caso che Spielberg scelga proprio il punto di vista dell’animale per i momenti più memorabili. La pinna che taglia l’acqua è solo un preludio: il vero terrore è quando la macchina da presa si fa occhio del mostro. Quando il cinema stesso assume la sua prospettiva, e ci costringe a guardare dal fondo. Il mare come pupilla cosmica, come spazio rovesciato in cui l’uomo non è più soggetto, ma preda. In questo senso, Lo squalo è un film che parla della visione come giudizio. Lo sguardo inumano dell’animale è l’equivalente profano dello sguardo divino che, nella Bibbia, non si può sostenere senza morire.
Il Leviatano non è solo una creatura marina: è il limite del visibile, il punto oltre il quale lo sguardo umano si smarrisce. Spielberg traduce questo nell’immagine perfetta: l’occhio fisso, vitreo, che non si chiude mai. Non c’è pietà in quello sguardo perché non c’è coscienza. Proprio in questo consiste la sua potenza: ci riguarda senza riguardarci.
Il cinema, in fondo, è sempre stato ossessionato dagli occhi. Da Un chien andalou di Buñuel al celebre occhio che si dilata in 2001: Odissea nello spazio, dall’occhio che spia in Psyco a quello che scruta in Blade Runner. L’occhio è porta, è arma, è traccia. Ma mai, come in Lo squalo, è stato così assente, così puramente ottico. Non è un occhio che comunica, ma un occhio che consuma.
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