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TikTok fa bene al cinema? La domanda, al centro di un interessante panel alle Giornate Professionali di Cinema di Sorrento, non è affatto banale. Anche perché TikTok non è un osservatore esterno: è tra i partner dell’evento, presenta uno studio realizzato con AnecLAB e si propone come alleato strategico dell’industria. Proprio per questo, i dati mostrati in sala meritano di essere presi sul serio e, insieme, trattati con una certa cautela.
Il contesto è quello di un mercato che non ha ancora recuperato le abitudini pre-pandemia. Gli italiani vanno al cinema circa quattro volte l’anno contro le sei del 2019, la fruizione è più rara, più selettiva, più costosa in termini di tempo e di organizzazione. Dentro questo quadro, la piattaforma di ByteDance si candida a diventare il nuovo epicentro della scoperta: luogo in cui i film non sono solo promossi, ma commentati, remixati, trasformati in frammenti di conversazione continua che rimbalzano dai feed alle sale.
A illustrare i risultati della ricerca è Alice Porrati, head of measurement per Francia e Sud Europa. Il primo blocco di dati serve a definire chi usa TikTok. Il 71% degli utenti italiani dichiara di aver scoperto un film, un attore o un titolo proprio grazie alla piattaforma. L’84% è andato al cinema almeno una volta negli ultimi sei mesi. Ne viene fuori il ritratto di una community tutt’altro che distante dalle sale, anzi sovrapposta in buona parte ai moviegoers più attivi. Anche la composizione sociodemografica smentisce l’idea di un recinto per soli adolescenti: il 27% ha tra i 18 e i 24 anni, il 16% tra i 25 e i 34, un altro 16% tra i 35 e i 44; il 23% si colloca nella fascia 45–54, il 14% tra i 55 e i 64, con un residuo ma non irrilevante 4% di over 65. Donne 51%, uomini 49%. Se la sala cerca un pubblico da riconquistare, dunque, dentro TikTok quel pubblico c’è già.
La ricerca conferma che il genere resta la prima bussola nelle scelte: per il 67% degli utenti è il fattore decisivo. Commedia, thriller e azione guidano le preferenze, con valori tra il 45% e il 49%. Ma il dato più interessante riguarda la natura delle storie: i film originali risultano i più appetibili, con un 73% di interesse dichiarato, seguiti dai titoli tratti da fatti reali, fermi al 71%. Gli adattamenti da libri reggono, sospinti dal fenomeno #BookTok. È una fotografia che quantomeno incrina lo stereotipo di una generazione interessata solo ai franchise.
Poi però lo studio prova a misurare il nesso tra ciò che accade in piattaforma e ciò che succede al botteghino. Sessanta film usciti tra fine 2023 e inizio 2025 vengono analizzati con un modello di regressione avanzato per mettere in relazione investimenti media su TikTok, visualizzazioni organiche, livelli di viralità e andamento al box office. Secondo Alice Porrati, l’effetto della piattaforma è “concreto e misurabile”.
I numeri sono destinati a circolare a lungo. Esiste una correlazione positiva del 68% tra investimento paid e visualizzazioni organiche: più si pianifica in advertising, più la community produce contenuti e parla del film. Qui entra in gioco il cosiddetto chatter, ovvero il volume e l’intensità della conversazione attorno a un titolo, misurata in video pubblicati, commenti, like, condivisioni, remix. Quanto più un film è “chiacchierato” sulla piattaforma, tanto più aumenta la sua visibilità potenziale. Lo studio registra anche una correlazione del 67% tra visualizzazioni organiche e incasso: quando il chatter cresce, crescono anche le presenze in sala. Per i titoli che diventano virali, le performance possono essere fino a 1,5 volte superiori rispetto ai non virali.
Sul fronte monetario, l’indagine è anche più netta. Ogni euro investito in media a pagamento su TikTok genererebbe in media 5,2 euro di incasso al botteghino. Se si considera anche il cosiddetto “effetto alone”, la stima sale oltre i 10 euro per ogni euro investito. Per effetto alone si intende quel meccanismo per cui il beneficio della campagna non si esaurisce nell’annuncio pagato, ma si irradia sui contenuti spontanei che si generano in scia: i video degli utenti, le reaction, i meme, i POV. È un effetto familiare nella vita quotidiana: un nuovo ristorante invita un influencer, paga un contenuto ben confezionato, e quel video porta i primi clienti. Poi però arrivano le storie degli avventori, le recensioni, i tag, le foto dei piatti. La pubblicità iniziale smette di costare, ma continua a produrre prenotazioni perché il passaparola digitale prende il sopravvento. Sul cinema, la dinamica che TikTok descrive è la stessa: l’euro speso in paid innesca un ciclo di contenuti organici che continuano a lavorare per il film anche quando il budget è stato già bruciato.
Il punto più delicato riguarda la natura stessa dei contenuti. Secondo lo studio, il 99% dei video legati a un film è creato dagli utenti, mentre la quasi totalità delle visualizzazioni arriva da quei contributi non ufficiali. Gli account di studio e distributori pesano pochissimo nel computo complessivo. È qui che il discorso cambia tono e il panel, moderato da AnecLAB, si apre alle voci dei marketer. Il dato sul predominio dell’organico suona come un invito a ripensare il proprio ruolo: non più registi unici della comunicazione, ma detonatori di conversazioni da lasciare poi in mano alla community.
Arturo De Simone, vicepresidente marketing theatrical di Warner, legge TikTok dentro una storia lunga del marketing cinematografico: «Abbiamo usato tante piattaforme, forse TikTok rappresentava il connubio più naturale con il nostro mondo perché usa il video. TikTok, come il cinema, è creatore di trend. Ci compravamo le scarpe di Kill Bill, solo che i tempi perché qualcosa diventasse virale erano più lunghi». Oggi, osserva, la circolazione è più rapida e bidirezionale: il cinema si appoggia ai trend nati in piattaforma e la piattaforma amplifica i trend nati nei film. Cita l’IP di Minecraft, teoricamente esposta al rischio di saturazione o travisamento, come esempio di lavoro di fino sulla viralità; guarda al nuovo Cime tempestose come a una combinazione di fattori preesistenti che TikTok può portare a maturazione: il classico letterario, la scia di Barbie su Margot Robbie, una musicista come Charli XCX già carica di hype altrove.
La parola chiave che attraversa più interventi è FOMO, la paura di essere esclusi dalla conversazione. Per Giorgia Di Cristo, marketing director di Universal Pictures International Italy, è lì che si gioca una parte importante del ritorno dei giovani in sala: «È fondamentale creare eventi culturali. La paura di perdersi una conversazione di moda, di non sentirsi cool, è un driver fortissimo. Il film deve diventare elemento di aggregazione». Una ricerca NRG citata nel panel mostra che circa il 70% del campione tra 12 e 15 anni dichiara di voler provare l’esperienza immersiva della sala, in un contesto in cui i film sono stati finora consumati soprattutto a casa (ricerca Gen Alpha Saves the Box Office di NRG: https://assets.ctfassets.net/4ivt4uy3jinr/5SFUHC2mVnp3vB2keFC2xZ/827fd658e3e680f64da5b0b963c4afc6/NRG_Gen_Alpha_Saves_the_Box_Office_Aug_2025.pdf). Per questa generazione, cresciuta sul divano e sull’on demand, il multiplex può diventare l’eccezione, l’uscita dalla normalità. Il film visto con gli amici, la foto postata, i commenti, la clip replicata sono l’estensione di una memoria privata che si fa memoria condivisa. In questa prospettiva TikTok non sostituisce il cinema, lo estende.
A frenare ogni entusiasmo deterministico è Federica Diomei, marketing director di Eagle Pictures e Paramount Pictures Italia. Il marketing, sottolinea, non è un miracolo: «Ci permette di dare il giusto posizionamento al film, di capire a chi ci stiamo rivolgendo. Non tutti i titoli sono family, non tutti devono fare milioni di euro. Ogni film ha caratteristiche intrinseche che il marketing deve valorizzare». Diomei pone la domanda che la ricerca non può risolvere: il film ha davvero una “rilevanza theatrical”, valida a giustificare lo sforzo di uscire di casa, prendere l’auto, cercare parcheggio, comprare il biglietto? Se la risposta è no, nessun algoritmo può colmare il gap. Anche la forma del messaggio va ripensata. In un contesto in cui la soglia di attenzione è di pochi secondi, i trailer da più di un minuto rischiano di essere anacronistici. Il patto di fiducia col pubblico diventa decisivo: promettere un film che poi non esiste è il modo più rapido per bruciarsi.
Alessia Garulli, vicepresidente marketing e distribuzione di Sony Pictures Italia, sposta l’attenzione su un’altra ambivalenza: TikTok è alleato e concorrente insieme. «È una piattaforma di entertainment, c’è concorrenza su come la gente decide di passare il proprio tempo. Siamo stati bravi a capire come metterla al servizio del nostro lavoro». Spider-Man: No Way Home è l’esempio della grande IP che ha saputo sfruttare l’energia delle community per riportare pubblico in sala nel post-Covid. Ma è Tutti tranne te, commedia romantica arrivata in Italia dopo un avvio tiepido negli Stati Uniti, a incarnare l’effetto TikTok più puro: il tempo tra l’uscita americana e quella italiana ha consentito di costruire il fenomeno direttamente in piattaforma, fino a trasformare un titolo “piccolo” in un caso da manuale di passaparola social. Questo margine, ricorda Garulli, con i grandi franchise non esiste: i vincoli del day-and-date globale non permettono strategie così flessibili. Dove l’industria sbaglia, ammette, è nel non individuare l’argomento giusto su cui far convergere la conversazione. La semplice presenza sui social non basta: bisogna capire quale elemento del film può diventare oggetto di discorso.
Davide Romani, marketing director Studios & Integrated Marketing di The Walt Disney Company Italia, aggiunge un tassello. Il pubblico oggi ha mille fonti, e ingannarlo con un trailer è sempre più difficile. Con le IP note si lavora su un terreno già fertilizzato, con i film originali serve un gancio preciso. Nel caso di Kinds of Kindness è stato un balletto, trasformato in elemento virale. Il lavoro, dice, è un misto di sociologia, psicologia e marketing: identificare quel gesto, quella scena, quella micro-coreografia che può vivere di vita propria su TikTok e generare emulazioni, meme, appropriazioni.
La voce più esplicitamente politica arriva da Andrea Romeo, ceo e direttore editoriale di I Wonder Pictures, quando ricorda che il film non appartiene a chi lo produce, ma a chi lo guarda. È un’affermazione che dialoga con il dato sul predominio dell’organico: se il 99% dei contenuti nasce dagli utenti, la narrazione si sposta per forza di cose nelle loro mani. Per l’industria è un arretramento di controllo; per la piattaforma è la condizione stessa del suo successo.
Dal lato della piattaforma, Giuseppe Suma, Head of Media & Entertainment, Global Business Solutions Tik Tok Italia, insiste su un punto che esce dai confini del singolo social e riguarda l’intera filiera: la digitalizzazione incompiuta del sistema cinema. Da anni, nelle sue interviste, Suma ripete che TikTok non è solo un “touchpoint” di awareness, ma una piattaforma che può spingere l’acquisto d’impulso e agganciare un pubblico che vive già in un ecosistema digitale integrato. A Sorrento torna sullo stesso chiodo: non si tratta di investire di più, ma di investire meglio; e soprattutto di avere un’infrastruttura capace di assorbire quella spinta. In Italia, però, comprare un biglietto resta spesso un percorso a ostacoli: app frammentate, circuiti non dialoganti, percorsi di acquisto macchinosi. Il rischio è evidente: TikTok accende il desiderio, ma la catena della digitalizzazione si spezza proprio nel passaggio decisivo, quello che trasforma l’intent in transazione.
Sul finale, il panel affronta il tema della tutela dei contenuti. Camilla Giannecchini, head of local regulatory di TikTok, rivendica la presenza di team dedicati alla protezione del copyright. Federico Bagnoli Rossi, presidente FAPAV, ricorda che il camcording è un reato e ammonisce: l’Italia non è un Paese per pirati. È un passaggio tutt’altro che secondario. TikTok prospera su remix, citazioni, riuso creativo, ma deve al tempo stesso fare da argine agli usi illeciti. La stessa ricerca che dimostra quanto pesino i contenuti generati dagli utenti sul box office mostra anche quanto sottile sia il confine tra promozione e violazione.
Alla domanda iniziale – TikTok fa bene al cinema? – il panel di Sorrento finisce per suggerire una risposta meno consolatoria del previsto. Sì, la piattaforma è sempre più un driver fondamentale per le abitudini di consumo filmico: orienta la scoperta, influenza le conversazioni, crea rituali nuovi attorno ai titoli. Ma non è affatto detto che queste abitudini siano destinate, in automatico, a tutte le sale (quelle d’essai?). Molta della fruizione che TikTok alimenta può inoltre scaricarsi altrove: sulle piattaforme streaming, sulla visione per frammenti, sul consumo di clip isolate, di finali spiegati, di scene “più forti” sganciate dal contesto.
C’è poi un altro punto, ancora poco esplorato: gli effetti distorsivi di una comunicazione costruita a misura di feed sulla percezione e sulla costruzione del discorso filmico. Ridurre un’opera a un balletto, a un “momento meme”, a una scena da imitare significa privilegiare ciò che è rapidamente condivisibile rispetto a ciò che è narrativamente o esteticamente decisivo. La discussione si sposta sul gossip, sul cast, sulle polemiche lampo, sulle classifiche, sulla logica dei like. È il prezzo da pagare per stare dove sta il pubblico, e in fondo era così anche una volta. Ma è anche un rischio per la qualità del dibattito critico.
Forse, più che chiedersi se TikTok faccia bene o male al cinema, bisognerebbe iniziare a ripensare l’ecosistema in cui il cinema viene raccontato. Un ecosistema che includa TikTok e gli altri social, certo, ma anche strumenti diversi, con tempi e grammatiche altre: le piattaforme di streaming, le newsletter, i podcast, le stesse sale quando si fanno luogo di confronto, e – banalmente – anche la “vecchia” stampa, con la sua capacità di argomentare, contestualizzare, verificare. Il panel di Sorrento ha mostrato che la sala non può più permettersi di ignorare il feed. Il passo successivo sarà capire come far sì che il feed non esaurisca, né deformi, il modo in cui pensiamo, parliamo e, alla fine, vediamo i film.
