Arriva un momento, ogni anno, in cui il cinema italiano si guarda allo specchio e non sa se ridere o piangere. Quel momento è Sorrento, Giornate Professionali di Cinema, dove distributori, esercenti e affini si ritrovano in una sorta di terapia di gruppo: si leccano le ferite dell’annata, si guarda con rinnovata fiducia al futuro, recitando il mantra della “ripartenza”. Ogni anno così.

Quest’anno l’umore sembrava peggiore ma è tornato velocemente ai suoi standard: una strana combinazione di stanchezza cronica e ottimismo farmacologico. Soprattutto tra chi maneggia più di uno schermo, i multisala, e ormai ragiona così: se Avatar 3 e, soprattutto, Buen Camino di Checco Zalone faranno quello che tutti sperano, non salveranno solo il Natale, ma “aggiusteranno” retroattivamente anche un’annata zoppa. E forse quella a venire.

«Se questi due vanno, siamo tutti contenti», ripetono in molti nei corridoi.
Gestori di multiplex di ogni classe anagrafica, dal Veneto alla Puglia, passando per Lazio e Lombardia: la proverbiale inquietudine meridionale si scioglie nel contagioso ottimismo della reunion nazionale, quando ci si sostiene a vicenda e l’uomo del destino sembra prossimo a venire. A microfono acceso pochi vogliono il proprio nome associato a un affidamento così esplicito al “fattore Zalone”, ma tant’è.
 

Il paradosso dell’essai che regge

Poi ci sono quelli che, a Sorrento, se ne stanno seduti con aria sorniona.
«Io non mi devo salvare da nessuno, sto andando meglio del 2019», ci dice Mimmo Di Noia, che con la società Progetto Lumière gestisce il Massimo Troisi di San Donato Milanese e il Palestrina di Milano. Non è spocchia, ma l’orgoglio di chi, pur nuotando nello stesso mare agitato degli altri, ha trovato una rotta meno perigliosa.
«A settembre, ottobre e novembre – racconta – le mie sale hanno fatto meglio dell’anno scorso. Mentre novembre, per il mercato in generale, è stato un mese terribile».
Il trucco? Una combinazione di fattori: sale radicate nei quartieri, pubblico fidelizzato, una linea editoriale riconoscibile, e una serie di titoli d’essai arrivati al momento giusto – da La voce di Hind Rajab a Un semplice incidente di Panahi– che nelle sale di qualità hanno trovato lo spazio che altrove mancava.

Altre realtà, come quelle coordinate da Carmine Imparato – Gabbiano di Senigallia, Masetti di Fano, circuito Acec Marche – non possono permettersi medesimi trionfalismi: «Non è andata come pensavamo. Abbiamo investito in progetti con le scuole, in comunicazione mirata sui social, in attività collaterali, ma dal punto di vista degli incassi non è stato l’anno che ci aspettavamo».

La scelta, però, è la stessa: non inseguire il 2019 come la perduta età dell’oro, ma stare “sul pezzo”, ragionare sui dati reali, sala per sala. Niente mitologie pre-pandemiche.

La controproposta che non vuole chiamarsi controprogrammazione

Imparato e Di Noia fanno parte di quella famiglia di sale che vivono la programmazione come un progetto culturale. Per questo, a Natale, né il Gabbiano né il Palestrina programmeranno Zalone.

«Non è che siamo contro Zalone – spiega Imparato – ma il nostro pubblico si aspetta altro. A Natale proponiamo Jarmusch, Norimberga e Primavera: non è “controprogrammazione”, è semplicemente la nostra proposta».

Di Noia è ancora più netto: «Il Palestrina non ha mai fatto un film di Zalone e continuerà a non farlo. Se ragionassi solo dal punto di vista economico potrei cambiare, ma snaturerei la linea del cinema».
Dentro quella linea ci stanno invece Sorrentino, Garrone, gli autori medio-alti italiani, quei film che magari fanno cinque, quindici milioni o restano indietro, ma costruiscono un rapporto nel tempo: «Il pubblico lo formi accompagnando gli autori. Quando Riccardo Milani viene al Gabbiano con un film piccolo, magari all’inizio sconosciuto, ma poi torna, riconosci i volti in sala. È una fanbase che cresce non per caso», chiosa Imparato.

La consapevolezza qui è condivisa con gli stessi talent: l’accompagnamento fisico del film – registi, attori, incontri, collegamenti – non è più un vezzo, è d’obbligo. «Dopo la pandemia – osserva Di Noia – abbiamo capito tutti che senza questo lavoro di presenza il rapporto di fiducia con il pubblico non si ricostruisce».
La sorpresa è che, finalmente, anche i tour promozionali escono dalle solite grandi città e arrivano in provincia, nelle sale di prossimità. È lì che un videomessaggio di Virzì o una serata con Valerio Mastandrea possono ancora fare la differenza.

Multisala: tutti contenti (ma con il rosario in tasca)

Se si cambia sala, quella dove siedono gli esercenti dei grandi circuiti, il discorso cambia. A Sorrento, nelle chiacchiere fuori perimetro, la frase più ricorrente è: «Basta che Zalone faccia Zalone e siamo tutti contenti».
Di fatto il multiplex italiano ragiona sempre di più per eventi salvifici: nel 2023 è stata la stagione di un fenomeno globale come Barbenheimer, quest’anno tocca a Zalone e Cameron.

In pubblico, però, il discorso resta prudente. A microfono spento, gli stessi esercenti ammettono che la dipendenza da pochi titoli “droganti” è il vero tallone d’Achille: «Non c’è crescita sistemica: hai il picco, poi torni giù. E non recuperi quel 30-35% di spettatori persi rispetto al 2019».
La domanda, va da sé, è: di quella fetta mancante, quanti sono andati via per sempre?

Biglietti d’Oro: la rivincita delle monosala

In questo scenario, i Biglietti d’Oro all’esercizio assegnati a Sorrento aggiungono prove.
Tra le sale con più spettatori in assoluto, compaiono il Nuovo Mandrioli di Minerbio (monosala sotto i 15.000 abitanti), il Modernissimo di Bologna, il Cinema Edera di Treviso, l’UCI Luxe Maximo di Roma e The Space Parco de’ Medici, sempre a Roma.

Se si guarda alle medie schermo, spuntano il Supercinema di Rovereto, il Cinema Modena di Trento, il Rouge et Noir di Palermo, il Lux di Aprilia, l’Eplanet Vasquez di Siracusa, il Multisala King di Lonato, il Multisala Oz di Brescia, i The Space di Cerro Maggiore e Napoli.
In mezzo, un premio speciale alla famiglia Pipitone del Cinema Esperia di Alcamo, “Sala del centenario”.

Un quadro che ci dice almeno tre cose: 1) Le monosale non sono un relitto romantico: reggono, e in certi casi comandano. 2) Il cinema di prossimità – città piccole, centri medi, quartieri – è ancora utile, se non utilissimo. 3) L’equilibrio tra Nord e Sud è più variegato di quanto si voglia credere: accanto ai multiplex romani, emergono Trento, Rovereto, Minerbio, Alcamo, Siracusa, Brescia.

Non sarà un’inversione di tendenza, ma l’indizio che, dove c’è identità forte, la sala respira.

Basta “mors tua vita mea”

Carmine Imparato e altri suoi colleghi insistono per la collegialità.
Vuol dire smettere di considerare il collega di città come un nemico da battere settimana per settimana. «Non deve essere “mors tua vita mea” – sintetizzano –. Se una settimana lavora meglio l’altro, pazienza: la settimana dopo può succedere il contrario. L’importante è non scaricare sul pubblico le nostre guerre». Collegialità, in pratica, significa coordinare le uscite, differenziare le proposte, evitare il gioco al massacro su copie e teniture, soprattutto in territori dove in pochi chilometri convivono multiplex, monosale e sale della comunità.

Il paradosso è che la distribuzione continua a comportarsi “come se tutte le sale fossero multiplex”: uscite con 500-600 copie, accumulo di titoli nei mesi invernali, desertificazione primaverile. «Per quattro-cinque mesi non esce quasi più prodotto italiano: è un problema strutturale», avverte Di Noia.
Il pubblico, che stupido non è, percepisce una stagionalità malata: film buoni da novembre a marzo, poi il vuoto (o quasi). E si regola di conseguenza.

La mano invisibile rimane in tasca

C’è chi tira in ballo Adam Smith e la sua “mano invisibile”.
«Macché! Al momento nel cinema italiano non esiste», chiosa Imparato. Ci sono invece mani molto visibili: quelle di chi, ogni sera, decide se alzare o abbassare il riscaldamento, se tagliare una replica, se rischiare un titolo indipendente sapendo che farà un buco in bilancio.

Torniamo a quel famoso 30-35% di pubblico perduto. Quasi tutti sono convinti che una parte non tornerà. Perché nel frattempo ha trovato altre abitudini, altre forme di intrattenimento, altre piattaforme. Perché, in alcuni casi, si è imbattuta in sale fredde, scomode, tecnicamente obsolete.

Di fronte a tutto questo, a Sorrento il Presidente Anica Alessandro Usai ha parlato di crescita persino in doppia cifra “dell’industria audiovisiva”, ma forse prescindendo dalle sale. «Quando si esibiscono i numeri – nota Di Noia – si parla di industria che cresce, ma è un’industria che produce anche per le piattaforme. Le sale restano l’anello più fragile, quello che da solo non sta in piedi».
Senza sostegni pubblici, chiuderebbero quasi tutti. Per tornare a un equilibrio industriale servirebbero almeno cento milioni di spettatori l’anno. Oggi siamo a settanta, troppo lontani.

Le assenze che fanno rumore

C’è un altro dettaglio che molti notano: alle Giornate Professionali 2025 non si è visto nessuno del MiC. Né il sottosegretario con delega al cinema, né il direttore generale. «È sempre stata anche una vetrina istituzionale – si osserva –. In un momento così delicato, la loro assenza pesa».
Si parla di riscrivere la legge cinema, di riformare gli strumenti di sostegno, ma dopo gli Stati generali dell’anno scorso, presentati in pompa magna, nessuno è in grado di indicare cambiamenti tangibili. Intanto, dalle sale, arrivano messaggi contrastanti: richiesta di sostegni, sì, ma anche richiesta di regole più chiare, finestre più sensate, meno schizofrenia tra sala e piattaforma.

Post-scriptum

Tra chi programma Jarmusch a Natale e chi accende ceri per Zalone, tra chi misura le medie schermo di Rovereto e chi aspetta i dati del The Space di Napoli, c’è una cosa che accomuna gli esercenti più resistenti: si percepiscono come guardiani di una galassia non ancora perduta. Custodi.
Di comunità, di buone immagini, di abitudini che non sono del tutto sparite.

Imparato, Di Noia e tanti altri, con nome e senza nome, appartengono a questa minoranza ostinata. Hanno capito che il problema non è solo quanti biglietti si vendono, ma perché ci si ostina a venderli. La sala è, prima di tutto, un bene comune.
A Sorrento, quest’anno, la parola “crescita” l’ha fatta da padrona già nel sottotitolo di questa edizione delle Giornate: Growing. Eppure, in molti l’hanno accuratamente evitata, forse perché, più o meno consapevolmente, sentono che prima bisogna ricostruire qualcos’altro.