Quando voleva – e sapeva – essere specchio del costume, il cinema italiano riusciva a intercettare, sfruttare, esaltare, canzonare, celebrare quei fenomeni popolari capaci di infiammare le masse. Parliamo dell’Italia del dopoguerra e di un sistema sì fragile ma eccitato, vivace, in pieno fermento, con produttori rampanti e scafati che capirono l’importanza di mettere in relazione il cinema di cassetta con gli eventi legati allo spettacolo, allo sport, alla mondanità che dilagavano in tutto il Paese.

Sono così nati film molto diversi tra loro, tutti caratterizzati dall’entusiasmo innescato dalla ricostruzione e dalla leggerezza tipica di una stagione di rinascita. Il concorso di bellezza più celebre, Miss Italia, offre non solo un nuovo divismo (Silvana Pampanini, Silvana Mangano, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Lucia Bosè) ma anche un film eponimo a metà tra dramedy e noir.

La rivista si fa scenario di due pietre miliari (Luci del varietà e Vita da cani), offre il canovaccio per commediole (È arrivato il cavaliere!, Attanasio cavallo vanesio), si autocelebra in antologie (I pompieri di Viggiù, Gran varietà, Café Chantat, Carosello del varietà). La radio è al centro di Il microfono è vostro, il sogno del cinema domina un capolavoro come Bellissima ma anche piccole cose dimenticate come Viva il cinema!, Cinema d’altri tempi, Il viale della speranza. La televisione, che in Italia si accende nel gennaio 1954, arriva sui grandi schermi grazie a Totò lascia o raddoppia e Domenica è sempre domenica.

Con lo sport trionfa la commedia: Totò va al Giro d’Italia e a uno degli eroi della corsa rosa, il campione Magni, viene dedicato un documentario (Fiorenzo, il terzo uomo), il calcio lo ritroviamo nelle farse L’inafferrabile 12 (prodotto dalla famiglia Agnelli che mise a disposizione il marchio Juventus) e Gli eroi della domenica. E perfino la politica, vissuta come passione incandescente e rocambolescamente divisiva, trova spazio in Don Camillo e Cani e gatti.

Ma un discorso a parte lo merita la musica: Napoli è sempre una certezza, con le canzoni che si trasformano in film (Zappatore, Carcerato, Luna rossa, Core ‘ngrato, Lazzarella, Guaglione), ma vengono trasposte in pellicola anche le hit radiofoniche (I cadetti di Guascogna, Solo per te Lucia, gli antologici Canzoni di mezzo secolo e Canzoni, canzoni, canzoni che anticipano i videoclip) mentre la commedia Bellezze in bicicletta traina l’omonimo brano e il mélo Anna lancia il successone El negro zumbon.

Quando, nel 1951, nasce il Festival di Sanremo, il cinema ci mette poco tempo ad assimilare la novità. Se ne serve anzitutto come serbatoio di potenziale star system transmediale: si tenta di imporre Nilla Pizzi come attrice con Ci troviamo in galleria, sorta di A Star Is Born a lieto fine; si consacra lo statuto divistico di Claudio Villa, già apparso in qualche film ma che dopo la vittoria al Festival nel ’55 partecipa ad almeno venti produzioni in cinque anni; si consolidano le carriere tra musica e recitazione di Achille Togliani e Nunzio Gallo.

Nilla Pizzi in 10 canzoni d'amore da salvare (Webphoto)
Nilla Pizzi in 10 canzoni d'amore da salvare (Webphoto)

Nilla Pizzi in 10 canzoni d'amore da salvare (Webphoto)

Le canzoni di Sanremo si traducono in film: Papaveri e papere di Nilla Pizzi (secondo posto nel ’52), satira sul potere democristiano, fa da base per una parodia di Dottor Jekyll e Mr. Hyde nello strepitoso Lo sai che i papaveri di Metz & Marchesi, a Una donna prega del ’53, sempre della Pizzi, si ispira il melodramma omonimo, così come dalla vincitrice del ’55 arriva il perentorio Cantami “Buongiorno tristezza”. Nel ’59 esce Nel blu dipinto di blu, scritto da Piero Tellini, Ettore Scola e Cesare Zavattini a partire dal caposaldo dell’anno prima che ha trionfato a Sanremo e alla prima edizione dei Grammy Awards in America. Protagonista del film è lo stesso autore e interprete della canzone, Domenico Modugno, figura davvero unica nello spettacolo italiano, padre dei cantautori moderni ma anche diplomato al Centro Sperimentale.

Ma la cosa davvero interessante è come il cinema si serve di Sanremo per raccontarlo con un punto di vista inedito. Fino alla metà degli anni Cinquanta, il Festival è un’esperienza soprattutto radiofonica: nel ’55 la televisione trasmette la finale in seconda serata, dal ’56 vanno in onda tutte le serate ma sempre dopo le 22 con l’ultima che approda alle 21:30 solo nel ’63. A dare un volto alle voci sono le riviste e i cinegiornali, quindi il cinema capisce di essere uno strumento indispensabile per conferire agli interpreti quell’aura divistica che in quel periodo solo il grande schermo può garantire.

Nel ’56, Domenico Paolella, specialista degli zibaldoni musicali, dirige San Remo (sic) canta, un reportage del Festival che mette insieme esibizioni pubbliche ed episodi dietro le quinte, un film che oggi vale soprattutto come testimonianza del tempo. Tre anni dopo lo stesso Paolella ci riprova con Destinazione Sanremo, in cui una comitiva di appassionati, diretta in treno verso la riviera ligure, viene bloccata da una valanga e costretta a seguire il Festival da un paese di montagna. La cornice è quella di una bonaria commedia rosa, ma il contenuto è soprattutto documentaristico, con i filmati delle esibizioni musicali della rassegna (è l’anno in cui vincono Modugno e Johnny Dorelli, futuro attore, con Piove cioè Ciao, ciao bambina).

Un anno dopo è l’irregolare Piero Vivarelli a realizzare Sanremo – La grande sfida, concettualmente simile a Destinazione Sanremo: sketch comici alternati a pezzi del Festival del ’60, che vede in gara, tra gli altri, Modugno, Mina, Adriano Celentano, Renato Rascel, Tony Dallara. Il film si ritrova a fotografare il progressivo avvicinamento del Festival, culla della melodia, ai nuovi ritmi degli urlatori, già messi in scena nelle commedie giovanili Juke box – Urli d’amore, I Teddy boys della canzone e soprattutto Urlatori alla sbarra, perla di Lucio Fulci.

Adriano Celentano e Mina (Webphoto)
Adriano Celentano e Mina (Webphoto)

Adriano Celentano e Mina (Webphoto)

Con l’arrivo degli anni Sessanta, le canzoni di Sanremo continuano a offrire materiale per il cinema: Vivarelli inserisce le hit festivaliere 24.000 baci, Le mille bolle blu e Un uomo vivo in Io bacio… tu baci, veicolo per il divismo cinematografico di Mina. Ettore Maria Fizzarotti inaugura il filone dei musicarelli con Una lacrima sul viso (vincitrice morale nel ’64), chiamando Bobby Solo come protagonista, e segue lo stesso metodo per l’adattamento Nessuno mi può giudicare, classico beat con cui Caterina Caselli conquista il secondo posto nel ’66. Anno in cui vince Dio, come ti amo!, interpretata da Modugno e Gigliola Cinquetti, scelta come attrice del film italo-spagnolo tratto dalla canzone. Tre brani del ’67 vengono adattati per il cinema: Quando dico che ti amo, Cuore matto, L’immensità (La ragazza del Paip’s). Chiude il decennio Zingara, vincitrice del ’69, che diventa musicarello con Loretta Goggi.

Ma Sanremo lancia soprattutto canzoni, a volte memorabili, che vengono subito inserite in film spesso di successo: Quando, quando, quando, destinata a diventare hit mondiale, viene inserita nell’impressionante colonna sonora de Il sorpasso; Addio… addio di Modugno e Villa, vincitrice del ’62, si sente nel finale dell’opera prima di Bernardo Bertolucci, il pasoliniano La commare secca (PPP era un ammiratore di Villa, figlio del popolo); Io che non vivo, passata inosservata al Festival del ‘65, prima di trovare il successo internazionale viene scelta da Luchino Visconti per Vaghe stelle dell’Orsa.

Con la fine degli anni Sessanta, il rapporto tra Sanremo e il cinema italiano si arena. Il Festival entra in una crisi profonda e si riprende solo all’inizio degli anni Ottanta, periodo in cui è il sistema cinematografico a perdere centralità nelle abitudini e nei desideri del pubblico. Fintantoché Sanremo era oggetto di dibattito, focolaio di passioni e specchio del costume, il cinema se ne interessava, ne sfruttava il potenziale popolare, officiava l’unione popolare tra una kermesse che non ha eguali al mondo (a parte il cileno Festival di Viña del Mar) e un sistema capace di assorbire, mediare e restituire il fenomeno incastonandolo nell’immaginario collettivo.

Ci sono alcuni casi isolati da segnalare: nel ’79, Maschio, femmina, fiore, frutto cerca di cavalcare il successo di Anna Oxa, sconosciuta esplosa al Festival un anno prima con Un’emozione da poco; in FF.SS., una follia di Renzo Arbore dell’83, vediamo Roberto Benigni sul palco di Sanremo (notevole cortocircuito tra realtà e finzione); con Gole ruggenti del ’92, Pierfrancesco Pingitore prova a fare una parodia della kermesse con il Bagaglino.

Roberto Benigni in FF.SS. cioè... che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene? (Webphoto)
Roberto Benigni in FF.SS. cioè... che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene? (Webphoto)

Roberto Benigni in FF.SS. cioè... che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene? (Webphoto)

Ormai Sanremo è qualcosa che basta a se stesso, un evento ciclicamente dato per spacciato e che, come un’araba fenice, risorge ogni volta più forte di prima. Una festa ecumenica che, a differenza del cinema sempre più arroccato nel suo mondo chiuso, rincorre l’ambizione di essere il più inclusiva e larga possibile. Senza pretendere un ritorno degli anacronistici musicarelli o ennesimi sfruttamenti dei brani nei film, oggi il cinema si serve di Sanremo soprattutto in quanto repertorio di canzoni, capace di evocare un’identità precisa e un tempo perduto, ma non sa sfruttarne la potenzialità di dispositivo nostalgico.

Eppure – e i tv movie Volare su Modugno e Io sono Mia su Martini, operazioni molto immediate e “facili” – lo dimostrano – Sanremo è un serbatoio di storie che aspetta solo di essere sfruttato al meglio (possibile che a nessuno sia venuto in mente di scrivere un film su ciò che accadde la notte del suicidio di Tenco, spartiacque della storia del Festival?). Fino a quando rinunceremo alla possibilità di avere un nostro Nashville, anche se non c’è un Robert Altman all’orizzonte?