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Ornella Muti in Innamorato pazzo
Il futuro è donna, sosteneva Marco Ferreri, che già l’aveva eletta L’ultima donna. È stato lui a dirci che l’oggetto era in realtà un soggetto, che al principio delle Storie di ordinaria follia c’era lei. “Bella non è la parola: devastante è più adatto” dice di lei, in quel film maledetto, Ben Gazzara aka Charles Bukowski: “Lei era fuoco fluido, la sua carne mi aveva già inghiottito. Dovevo allontanarmi da lei prima di bruciarmi. Era come tentare di uscirne arrampicandosi nel vortice di un gorgo”.
Il vortice di un gorgo, appunto. Difficile trovare parole migliori per definire Ornella Muti, David Speciale alla 70ª edizione dei Premi David di Donatello (un risarcimento nell’anno dei suoi settant’anni: non ne ha mai vinto uno competitivo), attrice che come poche è stata capace di incarnare il desiderio e al tempo stesso di esercitarlo e dominarlo. In un cinema maschile se non maschilista, è stata nuova mostra nell’antologia velenosa che sfiorò l’Oscar (con titolo programmatico e beffardo: Viva l’Italia), corpo contundente perché morbido, pericoloso giacché irresistibile, insostenibile come la sua bellezza fuori dal tempo e dalle mode.
Nel novero dei Nuovi mostri, Muti è l’unica donna e dunque vittima: nell’episodio Autostop si finge armata per evitare le molestie e finisce uccisa, in Senza parole è sedotta, abbandonata e infine massacrata via mangiadischi da un terrorista mediorientale. È quasi una dichiarazione programmatica: non potendo controllarla, così perturbante e dunque letale per maschi stolti e ombelicali, tanto vale farla fuori. Non è un caso che a dirigerla in quei due “sacrifici” siano due supremi maestri del cinismo, Mario Monicelli e Dino Risi, due che hanno subito colto l’incanto sconvolgente, l’erotismo indocile, l’indisponibilità alla sottomissione di una ragazza che è piombata senza avviso nel cinema italiano.


Ornella Muti in L'ultima donna
Se Monicelli l’ha consacrata con il capolavoro operaio Romanzo popolare (dove trova Ugo Tognazzi, suo partner ideale, e l’irriducibilità di Vincenzina) e riscoperta nella tarda trenodia borghese Panni sporchi (dove ritrova Michele Placido, già suo amante nel Romanzo popolare), è Risi a esaltarla nell’ascesa proprio assieme a Tognazzi, vedova nera dentro La stanza del vescovo e angelo azzurro nel devastante Primo amore.
Con un nome d’arte – e di battaglia – che porta in dote i fantasmi e la carne dell’archeologia dannunziana (merito di Damiano Damiani, pigmalione per La moglie più bella: Ornella come la sorella di Splendore ne La figlia di Iorio, Muti come la protagonista de Il piacere), Francesca Rivelli (così all’anagrafe) è stata tutto ciò di cui il cinema italiano, d’autore e mainstream, aveva bisogno per congiungere il passato con il futuro, eternare l’adolescenza e immaginarne la mitologia (non a caso Volker Schlöndorff pensa a lei per incarnare il proustiano Amore di Swann), ritrarre la borghesia in nero e annunciare la petite mort.
Come la gemella diversa Eleonora Giorgi, Muti ha portato qualcosa che mancava dai tempi di Alida Valli: il mistero di una bellezza lontana dalle forme giunoniche, dai colori caldi, dalla sensualità delle maggiorate mediterranee. E come la collega e amica (che accompagnò anche nel debutto alla regia, diventando epicentro della famiglia disfunzionale di Uomini & donne, amori & bugie), ha dato il meglio con Carlo Verdone, regalando l’irrequietezza vagabonda e la vulnerabilità travolgente alla coprotagonista di Io e mia sorella.
D’altronde, nel suo prime, in quel picco di gloria a cavallo tra la fine degli anni di piombo e la sbronza edonistica, Ornella Muti è stata tutto ciò che voleva, in primis star pop con Adriano Celentano nelle intramontabili e surreali romcom Il bisbetico domato e Innamorato pazzo (la chimica è pazzesca e il gossip ci informa che non era solo recitazione) e con Francesco Nuti in Tutta colpa del Paradiso e Stregati (nel capolavoro del malincomico è un’apparizione che taglia la luce umbratile della Genova notturna). Ma anche – o soprattutto – così autorevole e intrepida da accettare le sfide di un intellettuale pop come Pasquale Festa Campanile, con cui racconta la malattia mentale (La ragazza di Trieste), la transizione di genere (Nessuno è perfetto, tra i suoi apici), la purezza romantica (Un povero ricco).


Ornella Muti in Codice privato
E di incaricarsi completamente di un film come forse solo Anna Magnani (Codice privato di Francesco Maselli, quasi cover di Voce umana) e attraversare le epoche con fluidità (Il viaggio di Capitan Fracassa di Ettore Scola, ‘o Re di Luigi Magni, la “dama bianca” nella fiction su Coppi Il grande Fausto, la Mercédès del Conte di Montecristo in cui ritrova Gérard Depardieu), uscire illesa da disastri (Flash Gordon, Cronaca di una morte annunciata, Il conte Max, Il frullo del passero dove comunque dà un volto a un capolavoro di Lucio Dalla, Felicità: “Se tutte le stelle del mondo/ A un certo momento/ Venissero giù/ Tutta una serie di astri/ Di polvere bianca scaricata dal cielo/ Ma il cielo senza i suoi occhi/ Non brillerebbe più”) e salvare la baracca quando serve (lei e Alberto Sordi concedono un quartino di nobilità a Vacanze di Natale ’91), ricordarci ogni tanto che grande attrice potrebbe essere se avesse un cinema all’altezza di un volto del genere (nella collaborazione con Luca Belvaux, nel dimenticato Domani di Francesca Archibugi è autentica e fiera, nel cameo in Notti magiche di Paolo Virzì in cui alza la gonna e si lamenta dei registi lumaconi).