“I miei film sono molto concettuali: è come se sentissi di avere un’idea del mondo e di come funziona. Sono nato ad Haiti e ci ho fatto politica, sono cresciuto in Congo. La mia è stata una generazione sempre in rivolta. Sono stato negli Stati Uniti, nella Germania degli anni Settanta, in Francia con i movimenti di liberazione. La vita mi ha permesso di capire tanti punti di vista” spiega Raoul Peck, il grande regista candidato all’Oscar per I Am Not Your Negro, che ha aperto il ventunesimo Biografilm di Bologna con Orwell: 2+2=5, un complesso e radicale documentario che parte dal capolavoro 1984 per inquadrare la società “orwelliana” contemporanea, in un collage saggistico pieno di suggestioni ed evocazioni cinematografiche. “È stato Alex Gibney a propormi il progetto. Gli ho detto che ci sarei stato se ci fosse stato anche lui. E abbiamo trovato i finanziamenti in tre settimane. Soprattutto, avendo l’accesso completo a tutto l’archivio di George Orwell, sapevo che avrei trovato un sacco di tesori”.

“Non faccio biografie: creo storie che puoi guardare più volte”

Il film, che sin dal titolo interroga l’attualità della propaganda e del controllo delle masse, è anche una riflessione su un intellettuale che ha segnato in modo indelebile il Novecento: “Chi è veramente Orwell? Cosa ci dice la sua visione del mondo? Ho avuto la fortuna di rileggere i suoi saggi sul perché scrivere: sono diventati la pietra angolare del film. Non faccio biografie: creo storie che puoi guardare più volte. Anche la CNN fa documentari, ma vedi cos’ha da dire e basta, non lo rivedi. Se c’è una storia, invece, c’è un personaggio. Se c’è un personaggio, ci sono delle motivazioni, dei confitti”.

George Orwell (Webphoto)
George Orwell (Webphoto)

George Orwell (Webphoto)

Il principio è nella fine: “La storia l’ho trovata negli ultimi anni della sua vita: sta lottando per finire 1984, è molto malato, ha perso sua moglie, sta crescendo un bambino di cinque anni. È un vero e proprio dramma, c’è una suspence perché non sappiamo come andrà a finire”. Grazie ai materiali d’archivio, Peck ha ricostruito aspettative, ambizioni, delusioni di Orwell: “A diciotto anni va in Birmania, all’epoca colonia britannica, e si rende conto che non sta dalla parte dei buoni. Capisce di essere un colonizzatore, un complice della violenza, e capisce che l’Inghilterra non è il centro del mondo. E se ne vergogna. Allora va a Parigi senza soldi, trova lavoro come lavapiatti: ha fame di realtà, ha bisogno di sentirla. Solo attraverso queste esperienze diventa uno scrittore”.

“Non è stato un profeta, ma se la gente usa il termine ‘distopia’ è per 1984

Ma nel nucleo c’è soprattutto il romanzo con la sua eredità: “Orwell non è stato un profeta: scriveva di ciò che vedeva nel mondo. È uno scrittore accurato, turbato dal proprio statuto artistico, osteggiato anche da chi la pensava come lui. Ha deciso di essere una coscienza critica. Se la gente usa il termine ‘distopia’ è per 1984. La realtà distopica ha sottratto agli artisti uno strumento di critica sociale”.

Tra i tanti frammenti del film che raccontano “l’attualità orwelliana”, oltre a un intervento di Giorgia Meloni sul tema delle famiglie (“Era perfetta, non potevo non inserirla”), anche immagini molto recenti con Donald Trump ed Elon Musk: “La realtà è questa – riflette Peck – e il loro litigio non è che una forma di distrazione. La stampa dà spago e intanto le leggi cambiano, la Corte Suprema emette verdetti folli, le istituzioni sono in pericolo. Steve Bannon prometteva di sommergerci così da non avere un minuto per respirare. Perciò nel film ho voluto inserire il ‘I can’t breathe’ (la frase di Eric Garner, ucciso nel 2014 dopo essere stato soffocato da un agente di polizia di New York, diventata slogan del Black Lives Matter, ndr): non ti danno il tempo di riprenderti, sei bombardato da un sacco di stronzate che ti tengono occupato”.

Orwell 2+2=5
Orwell 2+2=5

Orwell 2+2=5

“tendiamo a pensare che il nostro piccolo mondo sia ciò che sta al centro”

Peck non nasconde il pessimismo: “Il capitalismo ha conseguenze incredibile sulle nostre vite, su come decidiamo, su come sopravviviamo. E la maggior parte di questo pianeta, il Terzo Mondo, è vittima delle decisioni di una minoranza. E poi, sì, gli esseri umani non imparano niente dalla storia. Dall’ultima guerra, dai fascismi, dei genocidi: stiamo vivendo di nuovo gli anni Trenta. E prima o poi la gente se ne accorgerà, ma sarà troppo tardi”.

“Ho fatto questo film per ribadire che tutto è già stato scritto – precisa Peck – e che spetta a noi intellettuali dire che qualcosa sta precipitando. So cosa vuol dire crescere sotto una dittatura, è necessario innescare una reazione. Politica significa cambiamento. Ma facciamo sempre gli stessi errori. La vostra democrazia qui è legata a ciò che sta accadendo in Birmania o in Congo. Perché in Congo i bambini stanno morendo in questo momento per fornire i vostri iPhone. Il punto è questo: tendiamo a pensare che il nostro piccolo mondo sia ciò che sta al centro. E tutto il resto non è importante. In realtà, è il contrario”.

A Bologna per accompagnare il film, prossimamente nelle nostre sale con I Wonder Pictures, il settantunenne Peck coglie l’occasione per fare il punto su una carriera ormai lunga: “Avevo ventisei anni quando ho cominciato a studiare cinema, ero già adulto. Non lo faccio per parlare di me o del mio piccolo mondo: è uno strumento incredibile per raggiungere le persone, per cambiare le cose. La maggior parte dell’industria cinematografica pensa solo ai soldi. Perciò io l’ho lasciata di continuo e ho perso molte battaglie. Non credo che un film possa cambiare il mondo. Ma può aiutare”.