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2073 - Ultima chiamata
(Cinematografo/Adnkronos) – "Questa non è fantascienza. È il mondo in cui viviamo". Con queste parole taglienti Asif Kapadia ha presentato "2073 - Ultima Chiamata", il suo nuovo e inquietante documentario, in anteprima nazionale al TopDoc, la rassegna dedicata ai grandi autori internazionali del documentario, in collaborazione con il Biografilm Festival in corso a Bologna.
Il regista britannico, già premiato con l’Oscar per "Amy" (sulla tormentata vita della popstar Amy Winehouse), abbandona il biografismo puro per spingersi in territori ibridi, mescolando filmati d'archivio, fiction e distopia in un’opera visionaria che guarda al 2073 ma parla spietatamente del presente. Il futuro immaginato da Kapadia è una New San Francisco sotto il giogo di ultraliberisti, tecnocrati e regimi autoritari. Una metropoli futuribile dove la sorveglianza è totale e la libertà solo un ricordo. Ma il vero nucleo di 2073 non è il domani: è il qui e ora. "Quando ho iniziato a lavorare al film, molti mi dicevano che fosse troppo deprimente. Qualcuno mi chiedeva perché avessi inserito Trump, dato che era ormai fuori scena. Ma io non volevo cambiare nulla. Era la realtà di allora, e la realtà conta. Serve per capire da dove veniamo e cosa possiamo ancora evitare", ha detto Kapadia in un'intervista all'Adnkronos.


Asif Kapadia
(G. Zucchiatti / La Biennale di Venezia / ASAC)Il film ha avuto la sua première alla Mostra del Cinema di Venezia l'anno scorso, ma negli Stati Uniti ha incontrato non poche resistenze. "Alcuni festival americani lo hanno rifiutato perché ‘diceva cose già successe’. Poi Trump ha vinto di nuovo. E chi aveva finanziato il progetto, finalmente, ha capito cosa intendevo", ha detto il regista premio Oscar.
Kapadia non nasconde l'amarezza per quanto sta accadendo in California in questi giorni: "Ho ricevuto un video da Los Angeles. Una ragazza camminava per strada, un militare le ha sparato. Me l’hanno mandato dicendo: ‘Sembra una scena del tuo film’. E tanti mi scrivono: ‘È come nel tuo film’. Questo significa che qualcosa si muove. La gente comincia a collegare".


Samantha Morton in 2073
Il documentario è costruito come un intrattenimento perturbante, ma dietro la narrazione si celano immagini che restano nella mente e domande difficili da ignorare. "Credo che il significato del film stia emergendo solo adesso - ha spiegato il regista - Viviamo in un mondo dove la tecnologia, i militari e il controllo stanno avanzando a ritmi vertiginosi. Il diritto a protestare, a firmare una petizione, a dissentire, ci viene tolto giorno dopo giorno. E nessuno capisce come opporsi".
A chi gli chiede se l'opposizione interna negli Stati Uniti, soprattutto da parte degli studenti, potrà avere un impatto reale sul nuovo governo Trump, Kapadia risponde con lucidità e disillusione: "Gli studenti sono sempre i primi a esporsi. La storia ha mostrato che di solito sono dalla parte giusta. Ma ci vuole tempo, troppo tempo, perché il resto della società si unisca a loro. Gli adulti dovrebbero fare di più. Non possiamo lasciare tutto sulle spalle dei più giovani". Il regista, che da tempo vive lontano dagli Stati Uniti, dice di non avere piani per tornarci presto. E aggiunge: "Questo film è anche il mio modo di protestare. Non solo contro quello che accade negli Usa, ma anche nel mio Paese, in Gran Bretagna. Chi si espone per la Palestina oggi in Europa rischia la repressione. È tutto connesso".