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La Serbia è spesso presente nel programma del Tertio Millennio Film Fest. E con merito. Nella scorsa edizione in concorso c’era l’ottimo Lost Country di Vladimir Perišić. Ci si soffermava sulla frammentazione della Jugoslavia, raccontata attraverso gli stilemi del coming of age. Quest’anno il testimone passa a Our Father di Goran Stanković, qui al suo esordio nel lungometraggio di finzione.
Il film racconta una pagina di cronaca che ha scosso la Serbia nel 2009. In rete erano stati caricati dei video, in cui alcuni tossicodipendenti venivano picchiati nei centri di riabilitazione. Il promotore di questo duro metodo di rieducazione era il sacerdote ortodosso Branislav Peranović. La storia finì nel peggiore dei modi, ma al momento non vogliamo svelare nulla allo spettatore.
Quello che interessa di Our Father è il rapporto che lega la macchina da presa al travaglio di un Paese. È come se fosse il controcanto del cinema bosniaco, capitanato negli ultimi tempi da Quo Vadis, Aida? di Jasmila Žbanić. Per quanto riguarda la Serbia, non si può prescindere dalla Storia. Quando c’era la Jugoslavia, c’era anche spazio per la sperimentazione. A sfidare la propaganda era la cosiddetta Onda nera, un movimento in cui non mancava anche una dose di ironia. Di sicuro cineasti come Dušan Makavejev, Aleksandar Petrović e Želimir Žilnik erano dei visionari. Dai loro film traspariva una necessità di ricerca, l’inseguimento di un’identità che poi sarebbe stata tutta da ricostruire.
È da qui che nasce il tormento, cardine del moderno cinema serbo. Dall’Onda nera si è passati a un gigante come Kusturica, a Srdan Golubović (il suo The Trap è da recuperare), a Ognjen Glavonic (The Load è molto riuscito). Ad andare in scena è una tempesta catturata dalla macchina da presa. Lo sguardo è politico, si analizzano la colpa, la necessità di riconciliazione, il rapporto con la memoria. Tutte queste anime convivono in Our Father, che brilla nel rappresentare un dilemma etico mai sopito.
I metodi barbarici di chi dovrebbe aiutare (e invece punisce senza pietà) si specchiano in quelli descritti da Jan Komasa in Good Boy. Qui la religione si fa catechismo di brutalità. Gli insegnamenti dei Testi Sacri vengono manipolati, alla preghiera si sostituisce la volenza. La provocazione è chiara, e si rivolge a un Paese intero. La chiave non è l’uso della forza, ma la riscoperta di un dialogo tra presente e passato, che al momento è difficile da raggiungere.
