Il titolo del terzo lungometraggio di Óliver Laxe è anche la sintesi del suo cinema: O que arde ovvero “ciò che brucia”. A quasi vent’anni dal primo cortometraggio, E as chemineas pudo salir (2006, realizzato con Enrique Aguilar), non possiamo che contemplare l’opera di questo regista come qualcosa che arde di fronte ai nostri occhi, una sorta di inventario poetico di quel che resta mentre le fiamme divampano, distruggono, trasformano il mondo.

Contemplare, appunto, perché quella di Laxe è una ricerca estetica votata all’estasi, capace tuttavia di affrancarsi da un’estetizzazione compiaciuta, incardinata invece su una fiducia nelle immagini quasi commovente nella consapevolezza che perdersi è l’unica via per ritrovarsi. Come fossimo in un aggiornamento di certo cinema psichedelico a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, che siano le allucinazioni del primo Barbet Schroeder o le atmosfere ipnotiche Monte Hellman, ma alla luce della spiritualità di Carl Theodor Dreyer, nume tutelare del regista.

Ordet, infatti, è la scintilla: il giovane Laxe lo scoprì alla Filmoteca de Catalunya; all’uscita dalla sala, stordito e impressionato, si ritrovò nel mezzo di una manifestazione contro l’informazione distorta sugli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004. Per Laxe è un’epifania: l’incrocio tra le due esperienze gli fa capire come il cinema possa interrogare la cronaca e viceversa, perché – come ha raccontato a Sight and Sound – “la radicalizzazione ci mette alla prova e ci prepara all’eternità”. Un dialogo ancorché conflittuale che si configura nel rapporto misterioso tra le immagini e gli spettatori, nella convinzione che le prime debbano restare sulla pelle dei secondi: “Anche se la fiamma si spegne, il calore continua a permeare i diversi strati epidermici, penetrando sempre più in profondità, fino al nostro io più profondo, proprio dove risiede l’anima”.

O que arde
O que arde

O que arde

Un atto di fede del quale non può non incaricarsi Laxe, nato a Parigi nel 1982 da genitori spagnoli di religione islamica e appartenenti alla working class, trasferitosi da bambino nella Galizia e con un percorso di formazione tra Barcellona e Londra: “La mia fede è strettamente legata al mio modo di fare film” ha spiegato a Film Comment, la rivista del Lincoln Center, evitando così che “le scelte siano determinate dal mio ego”.

Per Laxe è qualcosa di imprescindibile, anche quando è attore per se stesso o per altri, come in Todos vós sodes capitáns, ispirato a un laboratorio cinematografico per bambini svantaggiati organizzato a Tangeri, luogo decisivo nella prima fase della sua carriera (vi ha girato anche i corti Suena una trompeta, ahora veo otra cara nel 2007 e París #1 nel 2008). In questo esempio di cinema del reale, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes nel 2010 e vincitore del Premio FIPRESCI, Laxe interpreta una sorta di versione alternativa di se stesso, testimoniando come il metodo di lavoro metta in discussione il rapporto del regista con i bambini.

verso un cinema “esoterico”

Nel 2016 torna sulla Croisette con Mimosas, premiato alla Semaine de la Critique, dove crea uno dei suoi primi ṣirāṭ (ci torneremo), termine che nell’escatologia islamica si riferisce al ponte, sottile come un capello, che si estende sull’Inferno e sul quale i defunti dovranno passare il Giorno del Giudizio, ma che Laxe usa in senso più colloquiale, “cammino” o “via”. È la storia di un uomo che, nei giorni nostri, viaggia sulle montagne del Marocco e incontra due banditi, provenienti da un’altra epoca, che stanno trasferendo il cadavere di un vecchio sceicco nella città dei suoi cari. È un ulteriore passo verso un cinema “esoterico”, che rifiuta le convenzioni commerciali abbracciando un radicalismo ascetico, dove nella lucida follia del protagonista rifulge quella miracolosa di Ordet, con le ponderazioni spirituali che si incastonano in paesaggi di derivazione herzoghiana.

O que arde, presentato in Un Certain Regard a Cannes 2019 (lo trovate su Mubi), è un altro ṣirāt: un grande incendio devasta il massiccio galiziano, mentre un piromane esce di prigione e torna nella casa materna (che è quella del regista). Stavolta il “passaggio” è ancora più simbolico, una vertigine incendiaria che mette alla prova le nostre certezze: per Laxe un film non può che essere una preghiera e la sua trinità non può che includere Andrej Tarkovskij, Robert Bresson e Abbas Kiarostami (con uno sguardo ad Apichatpong Weerasethakul) nel misurare la compassione per un mondo distrutto moralmente e la sensualità di una natura salvifica che però minaccia l’equilibrio imposto dal capitale (la magnifica fotografia è del sodale Mauro Herce).

Sirat di Óliver Laxe
Sirat di Óliver Laxe

Sirat di Óliver Laxe

il Mad Max: Fury Road del cinema trascendentale

La quadratura teorica è di quest’anno: Ṣirāt (Premio della Giuria a Cannes) è il Mad Max: Fury Road del cinema trascendentale, un frontale tra Il sapore della ciliegia e Il salario della paura, dove la vita brucia all’improvviso, la rabbia si riverbera nel dio danzante di Nietzsche e la techno interroga il Corano. Un’esperienza immersiva veicolata dalle immagini e dai suoni della cultura rave, rituale che occupa tutta la parte che precede l’apparizione del titolo (arriva a quaranta minuti dall’inizio, quasi a chiudere l’ouverture della performance) e che si trasforma in una vera pratica filmica quando s’impone la “trama”: tra le montagne del Marocco, padre e figlio cercano la figlia e sorella scomparsa cinque mesi prima a una festa e si imbattono in un gruppo di outsider (si cita Freaks quasi per riappropriarsi di quella che la norma reputa mostruosità) che rincorrono rave nel deserto.

È un punto d’arrivo per Laxe: i suoi personaggi ardono per vocazione ma con la consapevolezza di essere parte di un collettivo, di un’universalità che non può prescindere dalla dialettica con l’altrove, con il fatalismo, con l’imprevisto. Ed è come se Laxe corteggi sempre quello stordimento sperimentato con Ordet: un film fisico e metafisico su quel che sta accadendo e su ciò che è sempre accaduto, sui salti nel vuoto e sul senso della fine, sull’inaccettabile ineluttabilità della morte e sulla celebrazione disperata della vita.