Il destino è un crapulone ingordo e tracotante che si presenta puntualmente alla mensa di cui siamo la portata principale, traditore per statuto, avido di epiche liriche e profezie apocalittiche. Sarà per l’eccesso di finzione e compiacimento declamatorio o per la artificiosità barocca di allegorie e metafore cui è destinato a fare da cassa di risonanza fino alla nausea, fatto è che la maggior parte delle sue declinazioni si distingue per una ampollosità retorica che ha in profondo sdegno il gemello diseredato del quotidiano reale, unico vero maestro di cerimonie della sorte che accomuna tutti.

Cieco e inarrestabile, non si dichiara prima e non si comprende dopo nel suo svolgersi apparentemente casuale e canzonatorio di cui siamo un trastullo il cui consenso è indifferente così come consapevolezze varie e pretese lezioni pedagogiche. Per caso, forse era destino, mi sono imbattuto di recente in un racconto che sa di rancido, ancora non propriamente decomposto, intriso di tossine che risulteranno mortali molto presto.

Una opera cinematografica insospettabile, almeno per me, dal titolo che attinge a un immaginario dantesco provvidenzialmente zavorrato nella traduzione sudamericana El Paraíso. Una elegia impeccabilmente miserabile dove la miseria è una routine perfettamente sostenibile al prezzo della progressiva riduzione a uno stato animale preso a strozzo, deprivazione emozionale che priva molto presto lo spettatore di ogni empatia con le comparse che si offrono spontaneamente alla bulimia ad alzo zero delle circostanze.

Margherita Rosa de Francisco Baquero, Edoardo Pesce in El Paraìso - Foto Matteo Graia
Margherita Rosa de Francisco Baquero, Edoardo Pesce in El Paraìso - Foto Matteo Graia

Margherita Rosa de Francisco Baquero, Edoardo Pesce in El Paraìso - Foto Matteo Graia

El Paraíso è un’opera sorprendentemente inquietante che relega la speranza a decoro saltuario e occasionale di sortite sessuali da mercato delle pulci. Una colla la cui fluidità vischiosa e soffocante si aggruma nel residuo polveroso di strade e canneti che pulsano di fluidi corporali, tiranni perlopiù incontrastati dell'esistenza, a dispetto dei pudori borghesi ipocriti, lusso velenoso riservato ai centri storici. Non rimane altro nella tramoggia cinematografica di un film che riesce a portarti sul piano della sopravvivenza punteggiata occasionalmente da patetiche esplosioni emotive amplificate dallo stupefacente endemico che pompa l’illusione, per la verità al di fuori di ogni tentazione, di quel trionfo di bruttezza fatta sistema di sopraffazione.

La sottrazione graduale di ogni appiglio cui aggrapparsi per resistere al progressivo scivolare dentro un fato di istinti ignobili è molto efficace, lubrificata dall’effluvio pungente e vagamente rivoltante di sudore che si confonde con aromi confortanti e falsamente pacificatori di amatriciana che rinsaldano solidarietà improbabili tra i compari di sventura.

El Paraíso, forse Klimt non sarebbe d’accordo, è la traduzione sinestetica di una quinta pasoliniana aggiornata ai tempi dello smartphone. Il quarantenne Julio Cesar si dibatte nel bozzolo vischioso del rapporto umorale e anomalo con la madre senza poterne uscire, nemmeno quando l'incidente Ines, la cui vulnerabilità diventerà un maglio persecutorio per i suoi tormenti irrisolvibili, si insinua per breve tempo tra i due, fusi in un unico carnale, morboso e claustrofobico.

Si direbbe un destino affettivo mentre è pura urgenza fisica che esclude maturazione e discernimento, accezione primitiva e cannibale di una sudditanza ombelicale in cui le nostalgie sottraggono il primato della dipendenza a qualunque taglio di cocaina. La loro relazione ha molti tratti in comune con il parassitismo sessuale dei lofiformi, curiosi pesci abissali la cui strategia riproduttiva si compie con la fusione completa tra maschio e femmina.

Edoardo Pesce in El Paraìso - Foto Matteo Graia
Edoardo Pesce in El Paraìso - Foto Matteo Graia

Edoardo Pesce in El Paraìso - Foto Matteo Graia

Per certi versi lo sguardo feroce di Enrico Maria Artale ricorda il microcosmo sottoproletario aspro di Accattone, penetrazione del degrado figlia di una soggettiva esperienziale da poeta predatore decisamente irrituale. Con una differenza olfattiva. Tutto El Paraíso è come invaso dall’aroma dolciastro di quei profumi taroccati che si possono trovare ad ogni angolo di Porta Portese. Manca l’affondo definitivo che finalmente sacrifichi la vittima sull’altare della disperazione e forse è proprio qui lo scarto tra le due periferie.

Se possibile, questa di El Paraíso è più insidiosa perché ha gli strumenti per attutire il disastro che coltiva con diligenza sui generis; una casa, la banda di spostati che pensa a te se fai il tuo dovere, una doccia, la macchina, l'aereo, soldi per formiche e cavalli quanto basta, benefit che rendono l'inferno meno inferno. Il destino fatica a nutrirsi di un paraíso così drenato dai fuochi fatui di una qualche novità salvifica che spegne con cura il desiderio di scrutare oltre un diario squallido cui non giova l'attraversamento di un oceano. La Colombia come le foci del Tevere, il piccolo boss romano come il vecchio della calle, la colla che intrappola persone come mosche.