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Come gocce d'acqua
Dopo le madri, tocca alle figlie. Ancora una volta le storie sospese di Stefano Chiantini si confrontano con le fratture, i conflitti, i tormenti di famiglie al bivio, spesso frantumate, a volte solo bisognose di trasformare i non detti nelle parole che non si sono mai pronunciate. Perché nelle famiglie si parla poco, si rimugina troppo, si aspetta molto, ci si separa spesso.
Come gocce d’acqua parte da qui, dai silenzi che provano a farsi invadere dalle parole tra noi pesanti, dalla vita in apnea come in una vasca da attraversare il più veloce possibile. Il nuoto resta tra gli sport più facilmente metaforici, nonché tra i più efficaci nell’inquadrare il dissidio tra il dovere dell’agonismo e il desiderio di affrancarsi dalla competizione, dalla routine, dall’alienazione. Per Chiantini non è una gabbia né un dato estemporaneo, ma un punto di partenza per raccontare un’altra famiglia alla prova.
Jenny, giovane promessa poco più che maggiorenne (l’inedita Sara Silvestro, già nuotatrice), prova del rancore per il padre, il camionista Alvaro anche lui ex nuotatore (Edoardo Pesce, di sottrazione nonostante la sfida della disabilità), che dopo quindici anni ha lasciato figlia e moglie (Barbara Chichiarelli, il volto più espressivo degli ultimi anni). Dopo una nuotata in mare, ennesimo e forse sprovveduto tentativo per riavvicinarsi a Jenny, Alvaro viene colto da un aneurisma e, dopo il ricovero, è costretto a cure e assistenza quotidiane. La disgrazia riavvicina i corpi solo apparentemente estranei e fa riaffiorare l’intesa perduta, ma allo stesso tempo allontana la ragazza dai doveri dello sport e le fa scoprire una verità sommersa. “Perdersi per ritrovarsi” cantava Emma, già attrice per Chiantini e beniamina della protagonsita.
Con la sobrietà e il rigore che non rinunciano all’emotività e all’empatia, Chiantini non sconfina melodramma, osserva senza giudicare, sta accanto ai suoi personaggi per sentirne il battito del cuore. E migliora il titolo di lavorazione, Supereroi, che forse enfatizzava troppo una normalità del quotidiano a rischio di sfociare nella retorica.
Regista quieto nell’approccio e inquieto nello spirito, si conferma in un buon momento dopo l’ottimo Una madre (a tutt’oggi l’esito migliore della sua ventennale carriera) e trova una consistenza meno rarefatta rispetto ai character study Naufragi e Il ritorno. Fa un cinema umile, pieno di dignità, che schiva i voli pindarici e si dimostra realmente interessato a sintonizzarsi sulle onde dell’adolescenza, che non cerca le verità assolute e interroga il silenzio, che non chiude tutto ciò che apre perché la risposta è nei varchi in questa malinconia marittima (belle location tra Civitavecchia, Santa Marinella e Sant’Agostino: il palazzo con la balaustra, il supermercato sul lungomare, gli archi sulla spiaggia).