La giovinezza quale periodo più lungo della nostra esistenza, perché ci accompagna anche quando giovani non saremo più. Parafrasando Cesare Pavese, Laura Luchetti porta al Lecco Film Fest il suo La bella estate (2023), proiezione che ha anticipato poi il successivo incontro di piazza, durante il quale ha anche ricevuto il Premio Lucia per la regista.

Dalle titubanze iniziali una volta ricevuta la proposta del produttore Giovanni Pompili di adattare per lo schermo l'omonimo romanzo breve di Pavese (che diede poi il titolo all'intera raccolta composta anche da Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, quest'ultimo portato al cinema da Antonioni nel 1955, con il titolo Le amiche) alla "follia" di accettare infine di fare il film, "follia come quelle che si fanno quando si è innamorati", dice la regista, che aggiunge: "L’unico regista che lo aveva fatto era stato Antonioni, per cui ero proprio intimorita. Poi ho superato tutto questo anche perché l’adolescenza è un’età che mi interessa molto e che mi piace raccontare. In fondo è l'età in cui tutto è possibile e si perde l'innocenza, un periodo di crescita e cambiamento verso il futuro, proprio come sosteneva Pavese".

Dopo la presentazione del film, Laura Luchetti - che nel 2018 ha realizzato Fiore gemello, poi nel 2021 la serie Nudes e, recentemente, ha diretto un episodio della serie Netflix Il Gattopardo - ha incontrato il pubblico in piazza XX Settembre, ripartendo proprio da La bella estate: "Uno degli elementi più importanti del racconto che fa Pavese è quello sulla contrapposizione tra la campagna, la natura e la città. La natura non ci tradirà mai mentre la città lo farà sempre e quindi ho iniziato a pensare a come tradurre tutto questo in un film, anche per quello che riguardava il casting: Ileana Vianello (Ginia) rappresenta la campagna, mentre Deva Cassel (Amelia) incarna la città che corrompe, pur mantenendo una bellezza esteriore".

Per quanto riguarda la sua formazione da spettatrice, Luchetti racconta di amare da sempre il cinema di giapponese, anche se "il primo colpo di fulmine è stato Kubrick, soprattutto Lolita, racconto di una sensualità enorme senza che si veda mai nulla. Poi Fellini, certo, La strada è un film che penso di aver consumato. Penso poi anche a Kore'eda, Akira Kurosawa, o a Picnic a Hanging Rock di Peter Weir, film che mi ha realmente formato".

Sul fronte dell'autodeterminazione femminile nel cinema, invece, la regista spiega che ci potrebbe essere il rischio che il "cinema al femminile possa diventare un genere a sé stante, cosa che potrebbe portare ad una percezione umiliante e distorta, ovvero che alcuni film vengano scelti solo perché diretti da donne: è più importante che ci sia un processo di educazione allo sguardo".

Si è poi affrontato l'argomento relativo al differente approccio lavorativo quando si tratta di realizzare opere a basso budget o ritrovarsi in progetti multimilionari come, appunto, la serie sul Gattopardo: "Per certi aspetti è come passare dal giocare a pallone nel cortile di caso e giocare a calcio in uno stadio come San Siro", dice Laura Luchetti, che però non nasconde di aver trovato in quel caso un ambiente collaborativo e aperto alle idee, sottolineando come "lavorare su progetti di vasta scala sia un'opportunità di crescita professionale e apprendimento continuo".