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Vittorio Storaro
“La luce è parola, la parola è amore, amore è conoscenza, conoscenza è libertà, libertà è luce, luce è energia, energia è tutto...”: come in un gioco di parole ecco la filosofia del più profondamente legato al tema della fotografia del cinema, il più premiato e insieme il più hollywoodiano dei nostri autori della fotografia.
Autore, sì, perché Vittorio Storaro, classe 1940, oltre sessant’anni sotto i riflettori del cinema, proprio sull’autorialità della fotografia sul set ha condotto una battaglia di principio (vinta) durata anni, sentenze e una montagna di ricorsi a capo di un drappello di “direttori della fotografia” pronti a seguirlo per rivendicare un principio che riconosce qualcosa in più del vecchio ruolo artigianale al quale è legata una delle più affascinanti professioni del cinema.
La fotografia che è, appunto, l’essenza del cinema, quella luce che ha accompagnato Storaro, per sua stessa ammissione, fin da quando era bambino appena undicenne e guardava con curiosità il mondo in cui si muoveva suo padre, proiezionista della Lux Film, con quel un raggio luminoso che tagliava l’oscurità della cabina fino al grande schermo…
Passione autentica, la sua, che nasce sui banchi di un istituto tecnico romano e si laurea nella sede più prestigiosa della formazione, il Centro Sperimentale di Cinematografia, incontrando la luce che da allora continua a siglare tutti i momenti più belli della sua vita, compresi i più personali. Quello, per esempio, del tramonto romano delle sere vissute con Antonia, che sarebbe poi diventata sua moglie: “Ci sedevamo sui gradini del Campidoglio aspettando il tramonto – ha raccontato ripensando alla sua giovinezza nella scoperta della luce – e, mentre ci promettevamo un nuovo appuntamento, ecco quell’attimo in cui il sole tramonta e quasi in filigrana si comincia a intravedere il contorno della luna”.
Una visione poetica, quasi dimenticata nell’atmosfera dei contrasti più violenti del primo Bernardo Bertolucci, ai tempi de Il conformista con Jean-Louis Trintignant tra la luce oscurata dal Regime e il bianco assoluto dei marmi dell’Eur, poi ritrovata all’imbrunire quando, anni dopo, sempre per Bertolucci, il colore della sua luce si è poi riacceso scaldandosi ancora di più e più tardi ancora, quando la pellicola sempre più calda importata dall’America, archiviò il meraviglioso bianco e nero d’autore come il pastello in cui spiccavano le giubbe rosse dei garibaldini del Gattopardo.


Apocalypse Now
Luci e ombre erano entrate in un diverso specchio cromatico capace di “rispecchiare anche i toni dell’umore, della storia, dei sentimenti” ha spiegato spesso Storaro illustrando con il cambiamento anche la sua cinemato-grafìa perché con la fotografia nel cinema, è la sua teoria “si scrive insieme al regista”. Lo ha insegnato anche ai “suoi” grandi autori americani, stregati dallo studio pittorico che, a cominciare dalla grande fascinazione per l’arte di Caravaggio, Storaro ha portato con sé anche a Hollywood come un insegnamento in qualche modo “sensoriale” per quel suo modo di “sentire” la luce che non ha mai abbandonato, fin da quando, girando con Luca Ronconi Orlando Furioso, “incontrare la suggestione della grande pittura fu la folgorazione”.
Nato per un cinema in formato kolossal che l’ha portato tre volte agli Oscar, con Apocalypse Now, poi Reds e L’ultimo imperatore, Storaro ha conquistato Hollywood con tre film molto lontani tra loro eppure tre autentici saggi di fotografia da studiare nei particolari per capire l’anima nascosta della sua filosofia d’autore, qualcosa che più di tutti Bertolucci aveva imparato a conoscere, comprendere e condividere Basti pensare al viaggio vissuto tra Ultimo tango a Parigi e L’ultimo imperatore e a quel modo di creare una sintonia anche nel passaggio di luce che avrebbe conquistato, più tardi, anche Woody Allen tingendo d’arancio un tramonto sull’Oceano e di un verde capace di disegnare interni color salvia come il verde brillante di un parco newyorchese per farci dire, ancora una volta, grazie alla magia della sua creatività non solo in Italia ma nel mondo.
Torniamo per un momento in Italia: a Vittorio Storaro si deve infatti un atto d’amore per la memoria del cinema e l’ultima promessa fatta a Bernardo, per il restauro dei film fatti insieme, uno da assistente e nove da autore, da Prima della rivoluzione, nel ’63 a Piccolo Buddha, nel ’93. Trent’anni di un percorso che ha scritto un capitolo di storia del cinema dopo la delusione di una revisione di Ultimo tango in cui, a suo avviso, “si erano perse proprio la morbidezza e la delicatezza di Brando”. Qualcosa che con il digitale oggi è possibile recuperare e che gli ha fatto dire di aver restituito qualcosa al loro cinema: “Sì, oggi sento finalmente di essere la memoria mia e di Bernardo”.