“Mi interessa penetrare nel mondo interiore dei personaggi. Non solo come autore, anche come spettatore: penso che i momenti più coinvolgenti siano quelli che si basano sul linguaggio cinematografico e non sul dialogo”. È così che Andrea Pallaoro, ospite alla sesta edizione del Lecco Film Fest, definisce la sua idea di cinema, ripercorrendo le tappe di una carriera internazionale come pochi autori italiani possono vantare.

A partire dal cortometraggio Wunderkammer (2008), storia incentrata sulla codipendenza e nata “dall’immagine di una madre anziana che lava nella vasca il figlio con un handicap”, subito rivelatoria di un talento interessato più alla dimensione sensoriale che a quella intellettuale. Il successo globale del corto nel circuito dei festival gli permette di girare il primo lungometraggio, Medeas (2013), che sviluppa “un archetipo in cui gli aspetti sensoriali sono alla base delle scelte formali” e ragiona su “come il bisogno di possesso spinga un individuo a commettere qualcosa di irreparabile”.

Realizzato con un budget inferiore ai trecentomila dollari (“senza tax credit” sottolinea), il film debutta alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti e gira il mondo, arrivando anche al Festival international du film de Marrakech, dove vince il premio per la miglior regia. E dove Pallaoro conosce tre attrici con le quali avrebbe poi lavorato: Charlotte Rampling (protagonista di Hannah), Patricia Clarkson (coprotagonista di Monica) e una terza attrice che sarà in uno dei suoi prossimi film.

Ma è proprio Hannah a segnare un’altra svolta: “La sceneggiatura aspettava solo di incontrare Charlotte – ricorda Pallaoro – e io non l’avrei girato se lei non avesse accettato. È stato decisivo il coreografo Benjamin Millepied, grande fan di Wunderkammer, che mi ha messo in contatto con Charlotte. Un incontro folgorante: dopo che ha accettato il ruolo, ho avuto la sensazione di volare”.

A Venezia, dove HannahI è in Concorso, Rampling vince la Coppa Volpi, e Pallaoro torna al Lido con il secondo capitolo della sua trilogia femminile, Monica, su una donna trans che ritorna a casa per occuparsi della madre morente: “All’origine c’è la storia di una mia amica, parallela a quella dell’attrice Trace Lysette. Ed è anche un po’ la mia storia: sto facendo i conti con il momento che negli anni mi ha fatto più paura, quello in cui non sono più sicuro che mia madre malata mi riconosca”.

Perché il cinema di Pallaoro – nel suo futuro ci sono la chiusura della trilogia e gli adattamenti di Agostino di Alberto Moravia e Salone di bellezza di Mario Bellatin – non prescinde dalle esperienze personali, da una vita lontana dal nido di Trento da quando, diciassettenne, la lasciò per frequentare il quarto anno delle scuole superiori in Colorado: “Ricordo anche il giorno, era il 16 agosto 1999. Dopo il primo anno in America, scelsi di restare per studiare cinema. Il cinema ha sempre avuto un ruolo nella mia vita, a quattro anni mi segnò la visione di Biancaneve e i sette nani in una sala di Trento. L’Hampshire College è una scuola liberale, non c’era un test, ogni studente poteva compiere un percorso personale. Mi ha insegnato la libertà di pensiero, a conoscermi meglio”.

E l’America è un’avventura: “Ho vissuto prima in Colorado, in un posto con ottomila abitanti, molto conservatrice ma dove ho intrecciato relazioni molto umane. Dopo sono stato in Massachusetts, quindi a New York e poi il Master alla Los Angeles alla California Institute of Arts. Con una mia amica ho fatto anche un viaggio in autostop dalla East Coast a Los Angeles: sei settimane, cinquantanove passaggi in auto, niente cellulare né carta di credito, solo duecento dollari in tasca”.

Ma per Pallaoro l’America è anche il posto della consapevolezza: “Mi sento più sicuro e solido, ho avuto la possibilità di essere chi non ero riuscito a essere prima, senza dover competere con le proiezioni altrui. E ho capito di essermi identificato in un nuovo mondo e nella figura dello straniero: io sono lì e qui sono lì. Ogni volta che torno a casa – tre o quattro volte l’anno – mi sento sempre quel diciassettenne che se n’è andato, come se fossi rimasto fermo al momento in cui sono partito”.