In una delle sequenze acrobatiche di 2 cavalieri a Londra, secondo episodio della serie che vede Jackie Chan al fianco di Owen Wilson per avventure ambientate tra il vecchio West (il primo film in Italia è uscito come Pallottole cinesi) e le malfamate rive del Tamigi di fine ‘800, l’asso di Hong Kong si esibisce in una irresistibile coreografia in omaggio (esplicitato dalla colonna sonora che intona la canzone-simbolo del film di Donen e Kelly) a Cantando sotto la pioggia, con tanto di ombrello aperto imbracciato come scudo contro la gang di scavezzacollo che gli dà la caccia tra le bancarelle del mercato di Londra. In un sol colpo, Jackie Chan chiarisce così un percorso che lo ha visto partire praticamente da bambino, a nemmeno 8 anni già stella del team delle “Sette piccole fortune” del teatro dell’opera di Pechino (insieme al compare di una vita, Sammo Hung), atleti formati alla danza, alle arti marziali, al canto, attraverso un addestramento durissimo e militaresco (lo stesso raccontato da Chen Kaige nel suo Addio mia concubina), per poi approdare negli States con cult come Terremoto nel Bronx o la saga Rush Hour – Due mine vaganti, dopo aver assunto in patria lo status sostanzialmente di divinità assoluta con serie amatissime tipo i Police Story o i Drunken Master (che l’attore ancora oggi considera i film più faticosi mai girati in carriera, per via del difficilissimo stile di combattimento “da ubriaco”).

Ma qual è lo sguardo che assiste al “tip tap da combattimento” del protagonista di 2 cavalieri a Londra, con cui una buona volta il più grande performer di tutti i tempi tira una linea tra il linguaggio dell’action “marziale” e i meccanismi del musical dell’epoca d’oro degli Studios hollywoodiani? Non può che essere quello di un bambino, un monello chapliniano che sgrana gli occhi al cospetto della leggiadria sovrumana e delle magistrali peripezie dell’eroe, come si conviene “armato” soltanto di oggetti non convenzionali, props recuperati qui e là tra gli angoli del set, come un prestigiatore. Di fronte alle magie di Jackie Chan torniamo tutti bambini, per parafrasare quello che Ray Bradbury scriveva dell’astronautica (“è una bella cosa riscoprire la meraviglia”), davanti a tutti questi salti mortali e a questi combattimenti di massa senza una goccia di sangue, eseguiti personalmente dall’attore, come certificano puntualmente gli immancabili bloopers sui titoli di coda che raccolgono i ciak sbagliati, i calci a vuoto, i ripetuti infortuni spesso quasi letali – Jackie era diventato un cartoon già molto prima de Le avventure di Jackie C

han, la serie animata che ha prodotto per cinque stagioni, o di doppiare il maestro Scimmia di Kung Fu Panda, a dimostrarlo basterebbero le decine di meme che il web ha dedicato alle sue “facce buffe”, figlie dell’abitudine di inserire sempre più siparietti comici all’interno dei suoi film, con l’aumentare della fama tra il pubblico “per famiglie”. Tanto che non c’è sostanzialmente differenza tra la moltitudine di personaggi interpretati sullo schermo in una carriera che tocca e sorpassa i duecento titoli, quasi tutti di nome “Jackie”, e la sua figura “istituzionale” (e social) di ambasciatore dei valori morali cinesi nel mondo (funzione sublimata dal ruolo del Maestro nei reboot recenti del franchise di Karate Kid, il film del 2010 e il suo sequel, Legends, recentemente giunto in sala). Nato, ormai 71 anni fa, nella Hong Kong di Bruce Lee e degli Shaw Brothers, Chan si è poi progressivamente avvicinato (non senza che questo destasse malumori tra i suoi conterranei) al governo cinese, fino ad entrare a far parte, dal 2013, della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, istituzione incaricata di rappresentare i principali partiti politici della Repubblica Popolare Cinese. Da quel momento pure il tono dei suoi film cambia, si diradano le partecipazioni americane e il sentimento patriottico innerva le avventure dei suoi personaggi, che anche per l’età anagrafica somigliano sempre meno ai clown pasticcioni degli inizi.

Supplied by Capital Pictures
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SHANGHAI KNIGHTS 2003 JACKIE CHAN OWEN WILSON Ref: FB Supplied by Capital Pictures *Film Still - Editorial Use Only* Tel: +44 (0)20 7253 1122 www.capitalpictures.com sales@capitalpictures.com f/sd016 (Supplied by Capital Pictures)

È chiaro che stiamo parlando innanzitutto di un imprenditore, che ha fondato prestissimo la sua casa di produzione, lavora con un gruppo di fedelissimi sia dietro la mdp (Stanley Tong, Benny Chan…) che tra i comprimari (pur avendo al contempo attraversato negli anni le immagini dei grandi maestri del cinema hongkonghese, come Tsui Hark o Ringo Lam), e ha fondato la sua scuola ufficiale di stuntman; ma Jackie Chan ha saputo sempre mantenere un senso di umanità, di prossimità, in tutto questo – come nella clamorosa sequenza con la scala a pioli dello straordinario First Strike (sì, confessiamo di avere un debole soprattutto per le produzioni anni ‘90 del nostro, quando l’Occidente si accorse in massa di lui, di Jet Li, di Chow Yun-fat, di John Woo...), in cui Jackie, in impeccabile salopette da lavoro alla Laurel & Hardy, dopo aver fatto roteare in aria senza alcuno sforzo apparente una scala di metallo per sconfiggere un’orda di nemici, ci si chiude dentro le dita, e ferma l’intera coreografia per soffiarsi sulla mano indolenzita. In istanti come questo, davvero nei suoi film si rinnova e si ritrova tutta la Storia del Cinema (e probabilmente l’intera storia delle “attrazioni” del Novecento) – ripercorsa a velocità doppia.

Premio Oscar alla carriera nel 2017, Pardo alla Carriera al festival di Locarno il prossimo agosto, Jackie Chan oltre alla cospicua carriera di cantante (com’è abitudine nelle superstar hongkonghesi) ha anche diretto una decina di suoi film, a partire dal 1979, tra cui il fenomenale dittico degli Armour of God. Nel più “serio” di questi, l’ottimo Senza nome e senza regole del 1998, ha inserito una delle imprese più folli di tutta la sua carriera, la discesa – senza CGI né altri “aiuti” – dal tetto fino all’ultimo dei 24 piani della facciata di vetro obliqua del grattacielo Willemswerf di Rotterdam: ecco, è impossibile, oggi, approcciarsi alle performance estreme di divi spericolati come Tom Cruise o i rooftoppers e simili di internet, pensando di poter fare a meno di citare l’apporto di Jackie Chan al canone (di pari importanza, probabilmente c’è solo Buster Keaton). Volete la sfumatura umana anche in questa pazzia? Stando a quanto tramandano i diari delle riprese, ci sono volute due settimane di training autogeno prima che l’attore trovasse il coraggio interiore per girare la sequenza del grattacielo di Senza nome e senza regole.
In un incontro con il pubblico del Toronto Film Festival del 2012, Jackie Chan riassume così la sua parabola: “all’inizio della mia carriera di stunt, facevo i film per i soldi; poi, da attore, ho iniziato a farli per la fama; quando sono arrivato in America ho capito che l’action lì è come lo sport, come guardare un evento tipo il Superbowl, e mi sono iniziato a chiedere come avrei potuto cambiare la storia e le regole del cinema d’azione”.