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Dry Leaf © Alexandre Koberidze, New Matter Films
Lisa è una giovane fotografa che, con una lettera, annuncia ai genitori la sua volontà di scomparire. Il padre, Irakli, parte alla sua ricerca accompagnato da Levani, il migliore amico di Lisa.
Alexandre Koberidze, regista georgiano, firma un lungometraggio lungo più di tre ore interamente basato su un’estetica sfacciatamente e radicalmente povera: le scene sono filmate usando il proprio cellulare, un Sony Eriksson dotato di una telecamera digitale a bassissima risoluzione, tanto che si faticano a scorgere i connotati dei volti, sostituiti da un’accozzaglia di pixel. Inoltre, il formato è un 4:3 di vecchissimo stampo e di alcuni personaggi è presente la voce ma non l’attore che li impersona: all’inizio del film la voce di Irakli sostiene che alcune persone sono invisibili, fra cui Levani. Quindi molti personaggi vengono paradossalmente inquadrati senza essere mostrati: la macchina da presa riprende il padre che dialoga con le persone che incontra nel suo lungometraggio ma di fronte a lui non c’è nessuno, o inquadra un ipotetico controcampo che, però, non contiene nulla, se non una voce che, in modo ossimorico e assurdo, è al contempo acusmatica e diegetica.
Oltre che l’esibita inopia estetica e di mezzi, sembra proprio che Dry Leaf sia povero anche di idee, a partire dalla trama: questa si basa sulla reiterazione della stessa azione minimale, consistente nel fatto che il padre chiede ai passanti se hanno visto la figlia, mostrando loro la sua fotografia, per poi andarsene. Seguono lunghe inquadrature dei tramonti, della natura, dei paesaggi georgiani, di tanto in tanto intervallati da dialoghi con il suo accompagnatore (invisibile) o dalla visione di animali che vagano, da inquadrature che riprendono dettagli di fiori, di piante e via discorrendo. Tutto ciò finisce col rendere il ritmo del film lentissimo ed estenuante.
Dry Leaf si presenta, in teoria, come un film picaresco, un road movie incentrato sul viaggio del padre alla ricerca della figlia ma, in realtà, si concretizza in un girovagare senza senso e senza meta, in posti di cui non si colgono i connotati e le differenze anche per via della bassissima risoluzione. Dunque, lo spazio che viene mostrato è irrazionale e privo di senso, essendo composto da inquadrature di luoghi scollegati gli uni dagli altri, senza nessuna informazione che li caratterizzi. Il film si riduce così alla giustapposizione paratattica di immagini di ambienti che, per questo motivo, non formano uno spazio (dunque un viaggio) coeso, ma solo un puzzle a cui mancano dei pezzi e di cui quindi non si coglie il senso.