Il rapporto tra cinema israeliano e il conflitto medio-orientale è un rapporto a dir poco strutturale. Difficile pensare al cinema israeliano senza entrare nel cuore del conflitto tra arabi ed ebrei. I grandi film e le serie televisive hanno costruito una narrazione molto ricca che nelle storie rappresentate sullo schermo prende ispirazione dalla vita reale e dai conflitti tra i due popoli. In generale il mondo dell’arte e della cultura in Israele ha un orientamento progressista che in questo caso si traduce in una volontà di dialogo. Non bisogna nemmeno sottovalutare il fatto che sono numerosi gli autori, registi, attori e maestranze palestinesi che collaborano nelle produzioni israeliane. Il mondo del cinema in Israele è spesso riuscito a rappresentare la realtà della guerra in modo complesso uscendo dal cliché dei titoli dei giornali.

L’attacco terroristico del 7 ottobre perpetrato da Hamas contro i civili israeliani e la conseguente reazione da parte di Tsahal, l’esercito israeliano, cambierà di sicuro le modalità del racconto del conflitto; che ora viene visto più come una lotta di sopravvivenza e come trauma collettivo da entrambe le parti.

Una serie televisiva che più esprime questo stato di violenza è Fauda (Netflix), che in arabo significa “Caos”, ha come protagonista Lior Raz, attore e sceneggiatore della serie che è già arrivata alla quarta stagione. Lior Raz nella vita privata ha servito realmente nelle forze di sicurezza israeliane. L’attore interpreta il capo di un commando del controterrorismo che fa incursioni nei territori palestinesi. Oggi, per ironia della sorte, alcuni dei protagonisti della serie stanno combattendo in guerra e uno di loro, Idan Amedi, è stato gravemente ferito in uno dei tunnel sotterranei costruiti da Hamas. È evidente che in una terra martoriata dalla violenza dove lo scenario di azione è uno spazio geografico molto limitato, finzione cinematografica e realtà si sovrappongono.

foto di Ruggero Gabbai
foto di Ruggero Gabbai

foto di Ruggero Gabbai

La serie è recitata in arabo ed ebraico ed è caratterizzata da una sceneggiatura coinvolgente. Le scene di azione militare non sono mai gratuite e seguono un plot dove le vite personali dei protagonisti sono altrettanto importanti nella sceneggiatura. La violenza casa per casa, le esplosioni, i rapimenti e gli ostaggi sono resi in maniera realistica e molto convincente soprattutto grazie ai luoghi in cui la serie è girata. All’interno di Israele vivono più di due milioni di palestinesi con passaporto israeliano e i villaggi arabi dentro il confine dello stato ebraico offrono scenari e atmosfere autentiche che rendono la serie un best seller globale. Il confine labile tra intrattenimento e cronaca politica in questo conflitto è molto sottile e la fiction diventa quasi una rappresentazione della realtà che ci aiuta a immaginare e a capire il vero dramma esistenziale delle due popolazioni.

Oggi possiamo immaginare la guerra attuale a Gaza pensandola con le immagini di Fauda come se questa faida fosse, appunto, un grande caos senza fine. Da parte palestinese, le produzioni sono minori ma rientrano sempre nell’ambito dei fondi dei principali aiuti al cinema israeliano, sia statali che privati. Come citato in precedenza, nel mondo del cinema c’è stata una buona convivenza tra popolazione ebraica e araba fino ad oggi (è possibile che dopo questa guerra le cose cambieranno). Tale collaborazione è stata il frutto di buone storie che, senza fare sconti alla realtà, ci restituivano anche un forte senso di umanità e di speranza per un futuro di convivenza pacifica.

Un film palestinese di recente produzione è 200 metri (2020) del regista Ameen Nayfeh disponibile su Amazon Prime. È la storia di una coppia palestinese costretta a vivere a 200 metri separati dal muro di sicurezza eretto dagli israeliani. La loro vita scorre parallela ed è un insieme di piccoli gesti di amore compresso in uno spazio ben definito. La distanza diventa abissale quando il figlio ha bisogno di cure mediche in un ospedale in territorio dello stato ebraico. Per il padre diventa difficilissimo raggiungere il figlio e superare i check point dell’esercito israeliano, nonostante le suppliche della moglie, che cerca di convincere invano il marito a prendere i documenti per risiedere in Israele. È un film che ci fa capire esattamente il conflitto della prossimità tra coloni ultra religiosi ebrei e la popolazione palestinese in Cisgiordania. Si tratta di una guerra non solo territoriale, ma anche identitaria, intrinsecamente legata alla difficoltà di scendere a compromessi. Le ideologie risucchiano tutto e non c’è più spazio per il dialogo.

foto di Ruggero Gabbai
foto di Ruggero Gabbai

foto di Ruggero Gabbai

Un altro autore palestinese che apprezzo è Elia Suleiman, che con il suo film autobiografico Il tempo che ci rimane (2009) dipinge la sua esistenza e quella dei suoi familiari che vivono a Nazareth in modo ironico e disincantato, quasi in una modalità di resistenza immaginifica, riassunta nella scena dove il protagonista salta con l’asta il muro. Valzer con Bashir (2008) diretto da Ari Folman, è un film di animazione israeliano che in maniera magistrale ripercorre il massacro di Sabra e Chatila in Libano da parte dei Falangisti libanesi, appoggiati dall’esercito israeliano.

La potenza del conflitto dal punto di vista narrativo si fonda su un intreccio di storie che ancora una volta parte dal reale. Tra gli esempi che hanno fatto la storia del cinema in tal senso si possono citare Exodus con Paul Newman o il più recente Munich di Spielberg. Credo però che la fiorente cinematografia più indipendente resti quella che meglio ci fa entrare nella realtà. Nel film Lebanon (2009) di Samuel Maoz, Leone d’oro a Venezia, interamente girato all’interno di un carrarmato, ci viene restituita una prospettiva claustrofobica all’interno di spazi strettissimi che rendono lo spazio visivo sempre più chiuso e senza orizzonti. Questo sguardo ci fa apparire la pace come una possibilità sempre più remota e lontana.