Tra qualche mese saranno 20 anni da quando Saverio Costanzo con Private vinse il Pardo d’Oro al festival di Locarno. Un film che oggi sembra un miraggio, che ha costretto alla convivenza attori israeliani e palestinesi per circa un mese. Tratto da una storia vera, ci racconta Costanzo: “L’ho scoperto mentre ero in Palestina, un giornalista mi ha parlato di un signore che viveva da molto tempo con i soldati sul tetto. Un arabo colto, il preside di una scuola, che recita Shakespeare e prega come ogni musulmano cinque volte al giorno. La sua casa è a cinque metri dal muro della base israeliana”.

Incominciamo con i titoli di coda. Alla fine di Private hai inserito un brano di Roger Waters che dice: i tedeschi uccidono gli ebrei, gli ebrei uccidono gli arabi, gli arabi uccidono gli ostaggi. Parole che, oggi mentre scriviamo, suonano come un terribile presagio.

Il brano Perfect Sense faceva parte dell’album Amuse to Death di Waters. Avevo visto allora un documentario su Hebron, in Cisgiordania, una città letteralmente divisa in due. Penso che in questi 20 anni abbiamo vissuto una grande amnesia e dimenticato, nonostante le politiche di avvicinamento con altri paesi arabi, che Israele sia sempre stato isolato, una polveriera pronta a esplodere. Waters parla della circolarità del male in uno Stato costruito sulla difesa.

All’inizio avresti voluto girare un documentario.

Avrei voluto realizzarlo sul posto, poi mi sono reso conto che gli attori potevano diventare un bersaglio terroristico. Sono arrivato in Palestina e a Gaza poco prima che arrivasse Hamas, ho visto tante ragazze piangere per quello che stava per avvenire, sapevano che non sarebbero più state libere, non avrebbero potuto continuare gli studi.

Hai scritto la sceneggiatura con Sayed Kashua, l’autore di Arabi danzanti. Un grande scrittore e giornalista palestinese che mi ha aiutato a capire meglio le difficoltà degli arabi che vivono in Israele l’impresa quasi impossibile di conciliare le due facce della società.

C’erano tensioni sul set mentre giravi?

All’inizio erano divisi: palestinesi da una parte, israeliani dall’altra. A metà delle riprese, che sono durate cinque settimane, si sono avvicinati e hanno scambiato qualche parola poi si sono di nuovo allontanati. Ho scoperto che cercavano di autodirigersi.

Ci sono state scene particolarmente difficili da realizzare?

Quando abbiamo girato la prima irruzione c’è stata una discussione accesa. Gli arabi hanno detto: sono troppo gentili questi soldati. Nella realtà fanno come vogliono: entrano, picchiano e se ne vanno. Per essere credibili devono fare così anche loro.

E gli israeliani cosa hanno risposto?

Che non erano carnefici. Noi cercavamo di mediare e allo stesso tempo non volevamo fermare lo scambio emotivo tra le parti. Per fargli dimenticare che stavano recitando, abbiamo usato solo piani sequenza.

Come hai fatto a convincere gli attori a lavorare insieme?

Non è stato difficile, il protagonista era Mohammad Bakri, il preside a cui si ispira la storia. Attore e regista palestinese con cittadinanza israeliana. Era come dire agli italiani volete fare un film con Robert De Niro?

Mentre i soldati israeliani si insediano al primo piano, Mohammad viene confinato con la famiglia a quello inferiore. La paura è tanta e le condizioni durissime. Ma lui non si arrende e fa dell'opposizione ferma e pacifica una filosofia di vita. "Fuggire ora significherebbe fuggire per sempre”. A fronte delle sue certezze, però nel microcosmo familiare si aprono però delle crepe e fa capolino anche il terrorismo.

Nel film la famiglia occupata si spacca in due: il padre sogna un futuro diverso mentre uno dei figli risponde con odio e violenza. Qual è il messaggio? Non c’è nessun messaggio ma i fatti: un popolo che occupa e uno che è occupato. Il giudizio è contenuto nelle cose che sono successe storicamente. Non voglio dire che sono tutti buoni o tutti cattivi: i soldati sono nei territori palestinesi per difendere la loro colonia. Ma sono coscienti di quello che accade? Non sono spesso troppo giovani? Se il protagonista, Mohammad Bakri, convince la figlia ad andare oltre la divisa, a guardare negli occhi il nemico, non convince però il figlio più giovane che su una bomba costruisce un sogno, quello di Hamas.

Terra promessa e tradita. Per oltre quindici anni hanno convissuto quasi pacificamente, prima dell’Intifada. In Private il tenente israeliano risponde al capofamiglia palestinese:

“Io non me ne vado perché questa è casa mia. Ma voi perché non ve ne andate?".

“Perché non te ne vai tu”, risponde Mohammad. Uno dei motivi che impedisce di andare nella direzione pacifica o comunque di coabitazione non violenta, sono le colonie illegali. Non è un segreto: nascono per un piccolo gruppo di ebrei ortodossi, che essendo indigenti, prima piantano le tende e poi aspettano l’esercito che a sua volta è costretto a difenderli, ma non è certo contento di rischiare la vita per loro. Il circolo si chiude quando il governo di Netanyahu legalizza i “settlement”. Una circolarità che impedisce qualsiasi passaggio verso il sogno di Rabin: due popoli e due stati.