Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini, King David (1985) di Bruce Beresford, La Passione di Cristo (2002) di Mel Gibson, The Nativity Story (2006) di Catherine Hardwicke, Ben Hur (2015) di Timur Bekmambetov e Maria Maddalena (2018) di Garth Davis: che cos’hanno in comune questi film?

Il genere biblico-religioso, ovvio. Un posto al sole nella Storia del Cinema, in alcuni casi. Certo, ma c’è di più: la location. Matera “al posto di” Gerusalemme, anzi, Matera “per” Gerusalemme, meglio, Matera Gerusalemme: con quali conseguenze?

Qual è il surplus di senso, indi lo slittamento profano e il guadagno del sacro, di questa sostituzione cinematografica, di questa metonimia? Già, Matera sta per Gerusalemme, sicché al cinema fruiamo la prima in guisa della seconda.

Matera è la Mater(i)a prima, Gerusalemme il prodotto finito, in mezzo sta il dispositivo cinematografico: per dirla con Raymond Carver, di cosa parliamo quando parliamo di Gerusalemme al cinema? Vale a dire, che cosa vediamo quando vediamo Gerusalemme al cinema?
Dal grado zero del Vangelo pasoliniano ai blockbuster hollywoodiani, passando per il fenomeno, alla voce cineturismo, The Passion, Matera è il simulacro fatto film, la copia di un originale – Gerusalemme, appunto – mai esisto.

Absit iniuria verbis, Matera è la bella copia di Gerusalemme: tra sacro e profano, la Mater(i)a prima dell’immaginario religioso, e gerosolomitano, collettivo.

Non è solo un problema – non è forse in capo al cinema la sospensione dell’incredulità? – di verosimiglianza, ma di riduzione del confronto, e del conflitto, di elusione dello specifico, di elisione dell’originale: si può certamente spacciare teatro di posa per Versailles, CGI per Marte e via rimpiazzando, ma spacciare la pur notevole Matera per la città santa alle tre religioni del libro non è colpevole, insomma, non è vilipendio?

Lanciare i Sassi e nascondere la camera, questa l’offesa, che chiama massimamente in causa noi italiani, locatari della location e culla-bis della cristianità: che esperienza facciamo dell’alterità, dunque della conoscenza tout court, domiciliando la Città Santa in Basilicata?

Quando c’è di mezzo Cristo, e l’arte che lo contempla, non si può rispondere al “Cosa vuoi di più dalla vita?” con “Un Lucano”, ci vuole un gerosolomitano, una denominazione d’origine protetta e, di più, benedetta.
O avete forse visto, virtù della reciprocità, un film ambientato a Matera girato a Gerusalemme? Non vi sembrerebbe strano, di più, inconsulto?
Andiamo al sodo, ché la capziosità non ci appartiene: si configura un reato di lesa esegesi, di mancata autodeterminazione, di appropriazione culturale, a uso e consumo di un pubblico occidentale, nella Matera spacciata senza colpo ferire per Gerusalemme?

La folla festante che, all’ingresso del Cristo in città, agitava rami di palma dovrebbe optare per i peperoni cruschi, per amore di verità? Perché, invero a buon diritto, ci siamo scagliati contro il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli per l’oleografia esplicita e poi non sindachiamo, anzi esaltiamo con battiti di mani, la messa a terra pasoliniana tra i Sassi? Zeffirelli fece uno sforzo, benché tacciabile d’esotismo, nell’avvicinarsi al setting originario: i sopralluoghi tra Israele e Nord Africa si protrassero per un anno, finché Betlemme venne ricreata a Tinghir e Nazareth a Fertassa, entrambe in Marocco – location anche in Tunisia.

Per il Cristo zeffirelliano con i capelli da Pantene protagonist ancora oggi ci stracciamo, come un sommo sacerdote qualsiasi, le vesti, per Enrique Irazoqui a spasso tra il Sasso Caveoso e il Sasso Barisano invece nulla da eccepire, ché il pauperismo si porta bene su tutto, luoghi contraffatti compresi? Siamo sicuri che tornasse a trovarci, e segnatamente sul set, Gesù rettificherebbe i suo strali già indirizzati ai mercanti: “Fuori i location manager dal tempio!”. E i peperoni cruschi pure.