"Non so se il cinema possa cambiare la realtà, è una piccola voce in un mondo molto rumoroso. Spero che chi vedrà il film si faccia delle domande, ma tutto poi dipende da come agirà uscendo dalla sala. Se non altro, possiamo incoraggiare i potenti, loro sì che possono cambiare il mondo".

Ken Loach arriva in Italia per promuovere il suo ultimo film The Old Oak, passato in concorso al festival di Cannes 2023: un viaggio nel Northumberland, regione economicamente depressa della Gran Bretagna, dove dal 2016 i locali convivono con i rifugiati siriani scappati dalla guerra.

"I protagonisti sono inventati, – spiega il regista - ma la situazione di partenza è vera. Quella regione è basata su vecchie industrie di acciaio, carbone e sulla cantieristica. Sono state distrutte da Margaret Thatcher non per ecologismo, ma perché i minatori avevano dalla loro parte il sindacato più forte e politicamente più radicale. Chiuse le miniere, i villaggi non davano più lavoro, ma nessun governo, sia di destra che di sinistra, ha fatto qualche investimento. Per cui le persone oggi si sentono arrabbiate, amareggiate e imbrogliate”.

Un’area in recessione, dunque, che negli ultimi anni per la prima volta, come detto, ha visto l’arrivo di un gran numero di siriani. Nel film sono rappresentati dalla giovane fotografa Yari e della sua famiglia. “Stiamo parlando dell’area con più rifugiati in rapporto pro-capite di qualsiasi altra zona della Gran Britannia. - spiega Loach - I locali all’inizio si chiedevano perché venissero da loro se non hanno nulla. Poi, col tempo, hanno iniziato ad affermare che non li volevano più, e infine ora dicono espressamente che dovrebbero tornare indietro”.

Il film nasce, perciò, dalla volontà di “capire come il razzismo possa nascere da una preoccupazione valida. Accanto a ciò, però, mostra una solidarietà autentica che viene dalla vecchia tradizione dei minatori. I siriani non hanno nulla, ma hanno vissuto il trauma della guerra con case distrutte, famiglie con lutti e altre esperienze tremende".

The Old Oak, infatti, è ambientato “nel 2016, anche se abbiamo iniziato a fare ricerche solo nel 2020, soprattutto grazie allo sceneggiatore Paul Laverty. Quando i siriani arrivarono, incontrarono le ostilità che raccontiamo nel film, ma nel 2020 si è erano già creati dei rapporti solidali. Così ci siamo sentiti giustificati nell'affermare che persone di diverse etnie possono convivere".

Una storia, dunque, che pur analizzando una piccola realtà, discute in senso universale la questione migratoria perché "le ragioni del fenomeno sono note: – afferma il cineasta due volte Palma d’Oro – oltre al cambiamento climatico, non vanno dimenticate le guerre di intervento dell'Occidente in Oriente in cui la Gran Bretagna ha svolto un ruolo vergognoso. Penso a quella in Afghanistan o a quella illegale di Blair e Bush in Iraq, costata milioni di morti e di sfollati. Gente come Blair dovrebbe essere portata al Tribunale dell'Aia per crimini di guerra, invece frequenta la BBC parlando da vecchio statista". Per il regista, però, la soluzione è solo una: “agire collettivamente attraverso le Nazioni Unite, che sono nate per questo scopo, anche se l'USA e la Russia hanno sempre cercato di limitarne l’azione".

Responsabili delle discriminazioni sui migranti per Loach, però, non sono solo le superpotenze protagoniste della Guerra Fredda, ma anche “l’Unione Europea che parla di solidarietà tra stati membri e lascia l’Italia sola di fronte al fenomeno. Esattamente quello che succede alle persone del nel mio film. La destra non interviene e dice loro: ‘prendetevela con gli immigrati!’. C’è il pericolo che quella propaganda possa fare presa sulle masse. Ma la domanda è: perché noi consentiamo che succeda?"

Se si parla di guerre e discriminazioni, il pensiero corre subito alla striscia di Gaza. Anche su questo tema Loach si esprime senza mezzi termini: "L'attacco di Hamas è stato un crimine, ma lo è anche il contrattacco di Israele su Gaza. Concordo con il Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres quando dice che l’attacco non è causale, ma viene da decenni di oppressione del popolo palestinese che molti non vogliono vedere".

Anche in questo caso per il cineasta britannico “bisogna agire collettivamente in nome della legge e dei diritti umani. Perché le Nazioni Unite non possono difendere i palestinesi?".

E a proposito di diritti negati, a chi gli chiede dello sciopero previsto in Italia dai sindacati il 17 novembre ed osteggiato dal Ministro Salvini, Loach nota che "la stessa cosa sta succedendo in Gran Bretagna, dove si persegue l’idea che a certi lavoratori non sarà mai consentito scioperare. Questo vuol dire, però, che i governanti sono impauriti: lo sciopero è un’arma potente, oltre che un diritto sacrosanto per i lavoratori. Nessuno può essere forzato a lavorare in una situazione di sfruttamento”.

Da qui, l’appello: “Se per questo diritto viene attaccato un solo sindacato, tutti gli altri dovrebbero scioperare: è un momento critico, bisogna difendere i diritti fondamentali della classe operaia. Penso che potrebbero essere molto vicini alla vittoria".

Ken Loach (foto di Karen Di Paola)
Ken Loach (foto di Karen Di Paola)
Ken Loach (foto di Karen Di Paola)

Il consueto sguardo barricadiero sull’attualità, non impedisce, però, il ricordo degli inizi della carriera: "Mi sento un privilegiato, il cinema è un mezzo meraviglioso. Negli anni Sessanta ho avuto l'enorme fortuna di cominciare in una TV che era agli inizi, non ci si rendeva conto del suo potenziale. Non avevamo le pressioni che subiscono registi e sceneggiatori di oggi. Eravamo poco più che ragazzini che creavano fiction contemporanee che nessuno controllava. Abbiamo fatto film forse un po’ incasinati, pieni di difetti, ma comunque facevano passare dei messaggi potenti. Alla fine di un mio lavoro, per esempio, misi una citazione di Trockij che incitava a ripulire il mondo dall’oppressione e della sfruttamento. Quando andò in onda i direttori della rete erano furiosi, ma ormai era troppo tardi..."