La riccioluta Cléo (Louise Mauroy-Panzani) non ha ancora sei anni ma ha già perso la madre, sostituita dalla balia capoverdiana Gloria (Ilca Moreno Zego). La donna è diventata subito l’epicentro affettivo per la piccola che sente di non poter contare su papà Arnaud, un uomo incapace, pur nella bontà d’intenti, di assumersi da solo il peso della genitorialità.

La partenza improvvisa di Gloria dalla Francia per Capo Verde per seppellire la madre morta funesta il dolce idillio. La bimba si dispera, si impunta, si ribella. Ricerca la tata convincendo il padre a mandarla per le vacanze estive nell’isola africana. Accolta nella famiglia allargata, tra nipoti gelosi e figlie adolescenti in dolce attesa, la piccola scoprirà tutto il dolore di non avere la centralità affettiva della mamma eletta.

È la famiglia di necessità, multietnica, intercontinentale, allargata secondo Marie Amachoukeli (già co-regista di Party Girl). Camera ad altezza di bambina per cesellare un canto intenerito sulla maternità nella fragilità, sull’urgenza di respingere lo smarrimento emotivo cucendo nuovi, saldissimi legami materni laddove la famiglia biologica si è già sfaldata senza rimedio.

Se i padri, infatti, qui sono figure o assenti (la famiglia africana è solo a conduzione femminile) o inadeguate al compito (l’anaffettivo Arnaud che consegna la sua paternità alla tata), Amachoukeli cerca l’empatia e la cura nell’emisfero femminile, ricostruendo, nella nostalgia di legami perduti, un nucleo affettivo che ne mostri la stessa pienezza.

Regia naturalista che gronda empatia, ricerca la fisicità emotiva dell’immagine. Il risultato è un dramma di echi autobiografici, curativo perché tattile, fatto di pelle su pelle, abbracci, carezze, lacrime.

La regista (anche sceneggiatrice con Pauline Guéna), nel ponte affettivo franco-africano, non smette di tampinare le sue creature, tempestate con grazia di primi e primissimi piani che adombrano il contesto. Eppure la densità emotiva di segmenti fiction che scorrono a ritmo piuttosto spedito (montaggio di Suzanna Pedro) oscilla di continuo e sconfina volentieri nel doc antropologico: il folklore collettivo e la religiosità capoverdiana; i pranzi aggreganti; le partite a pallone dei ragazzi in spiaggia e i tuffi dalla scogliera; i riti apotropaici alla nascita del piccolo Santiago.

Su questo filone espressivo L’estate di Cléo  – che ha inaugurato la 76esima Semaine de la Critique dello scorso Festival di Cannes – mostra una polifonia mobile che prende anche la forma di sgargianti squarci onirici di animazione ad aprire, intervallare e chiudere il film.

Nel mezzo prorompe, in disordine, il sano egocentrismo dell’infanzia messo in crisi dalla Morte; lo sguardo antropologico europeo gettato sull’Africa tribale; il rifiuto dell’abbandono e dell’incuria affettiva; la necessità di diventare genitori a qualsiasi età; la celebrazione di un rapporto madre-figlia di necessità; la preminenza della famiglia sulla società; l’urgenza di sostenere una piccola donna che alle prese con il trauma di non essere più il centro del mondo.