Ci sono film che nascono per diventare leggende. E poi ci sono film che diventano leggende perché non sono mai davvero nati. Queen Kelly è uno di questi: il fantasma erotico e barocco di un’opera abortita, che ha continuato a vivere sotto la pelle di Hollywood come un livido. Ora quel desiderio interrotto, quella bellezza spezzata torna, a quasi un secolo dalla sua “non-uscita”, per (pre)aprire Venezia 82.

Il progetto nasceva allora con i tratti della collaborazione “da sogno”: Gloria Swanson, diva e produttrice, e Joseph P. Kennedy ingaggiano Erich von Stroheim, regista e attore decadente, austriaco fino al midollo, per un film indipendente, libero, scandaloso.
Doveva essere una favola, sarà dannazione.

Il regista gira in ordine cronologico, una rarità a quel tempo perché imponeva alla lavorazione costi folli. Ma il film di von Stroheim non poteva che avere il seme del suo demiurgo: un seme tossico, alimentato dalla forza oscura del desiderio.
La storia: il principe Wolfram — decadente, inutile, bellissimo — si innamora di una novizia con la grazia delle apparizioni: Kelly, che da ingenua del convento finirà a regnare tra lenzuola e sudore nel bordello coloniale. È Madame Bovary riscritta da Sade, praticamente.

Gloria Swanson, Walter Byron in Queen Kelly (1928) - @Webphoto
Gloria Swanson, Walter Byron in Queen Kelly (1928) - @Webphoto

Gloria Swanson, Walter Byron in Queen Kelly (1928) - @Webphoto

La macchina però si spezza presto. Gloria Swanson, la diva, dice basta. Troppo disordine, troppa carne. Troppa Africa, dove la santità bianca si infrange tra sputi, fango, sudore e uomini nudi. Stop. Taglio. Fine. Il film resta a metà.

Eppure, non muore. Perché Queen Kelly sopravvive sotto forma di mito incompiuto, di rovina scintillante che fa gola ai cercatori d’oro del cinema. Nel 1985, Dennis Doros ne presenta una prima “ricostruzione” a Venezia, ma è nel 2025 che la creatura torna viva: grazie a Dennis Doros (Milestone) e all’accesso ai nitrati originali e a ricerche d’archivio. Una nuova versione, reimmaginata, con lo script di Stroheim come mappa e partitura inedita che pulsa dal vivo — arpa, percussioni, clarinetti, quattro violoncelli: un requiem carnale.

E allora eccola, la Regina impura, di nuovo sul trono: Kelly si affaccia dalle rovine del muto, tra cartelli dichiaratamente “Milestone” che segnalano ciò che è sogno, ciò che è storia, ciò che è visione. Cinema come necromanzia.

Stroheim è tutto lì: l’ossessione per i rituali della nobiltà in putrefazione, i corpi piegati sotto il desiderio, il culto del realismo sontuoso (si dice che pretese lingerie in seta anche per le comparse invisibili), la crudeltà lucida di chi mostra ciò che non si può dire. È l’ultimo degli imperatori del silenzio, colui che costruisce mondi per vederli crollare. Greed mutilato, Foolish Wives ridotto, Queen Kelly castrato. Ma nella sua mancanza, il film dice più di mille opere compiute.

Queen Kelly (1928) - @Webphoto
Queen Kelly (1928) - @Webphoto

Queen Kelly (1928) - @Webphoto

E poi c’è Viale del tramonto. Quando Swanson mostra Queen Kelly al giovane Joe in quella villa sepolcrale, non è solo una citazione: è un richiamo da sotto terra, è Max/Stroheim che proietta il proprio fallimento come forma di resistenza, come monumento al disastro creativo. In quel momento Queen Kelly diventa metacinema, ferita e memoria insieme.

Oggi, finalmente, è di nuovo uno spettacolo. Uno spettacolo imperfetto, dichiaratamente incompleto, ma non per questo meno potente. Anzi. Queen Kelly non è solo un film ritrovato: è l’idea stessa di cinema come incompiutezza, come tensione verso l’impossibile, come corpo erotico che sfugge al controllo. È la sua stessa rovina a renderlo necessario.

E se la Mostra del Cinema di Venezia sceglie proprio lui per aprire la porta della sua 82esima edizione, è perché non c’è nulla di più attuale di un film spezzato. In un’epoca che colleziona remake, prequel, reboot e sequel, Queen Kelly è l’anti-tutto: è un’opera che non si lascia completare.
Solo evocare. Solo guardare. Solo sentire.