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Dossier 137 © Fanny de Gouville // Modds
Cannes 78 ci ha messo davanti a uno specchio scheggiato: lo schermo non è più superficie di proiezione ma ferita, foro attraverso cui la Storia pulsa e sanguina. In un ecosistema ipnotizzato dal flusso ininterrotto, il cinema d’autore ha risposto scegliendo l’attrito: ha rallentato il fotogramma, lo ha graffiato, lo ha sporcato, trasformando l’immagine in un atto di responsabilità politica. Quattro gesti formali – flashback, voice‑over, split screen, danza – compongono la nuova grammatica della resistenza; un quinto segno, la quasi totale sparizione del drone, ha attraversato il festival come promessa di un ritorno all’imperfetto umano.
Flashback – Archeologia del trauma
Il flashback non è più nostalgia lineare, è strumento di scavo forense. In O agente secreto di Kleber Mendonça Filho non girano bobine da proiettare, ma cassette audio riavvolte e riascoltate a decenni di distanza: mine magnetiche che ridestano l’orrore della dittatura mentre un giovane professore vive sotto protezione. Ogni «play» innesca un cortocircuito sensoriale in cui l’immaginario pop – lo squalo di Spielberg, madeleine privata del protagonista – si sovrappone alla cronaca politica, costringendo lo spettatore a ricomporre detriti di verità.


O agente secreto (2025)
In Romería di Carla Simón, le coste galiziane diventano camera oscura dell’inconscio: il ricordo è un’infezione latente, una materia opaca che riaffiora in superficie senza mai rimarginarsi. Jafar Panahi, con Un simple accident, sovverte la logica del flashback: non come accertamento di verità, ma come impulso ambivalente in cui il passato continua a lasciar tracce, costringendo il presente a guardarsi costantemente indietro per liberarsi. Le torture subite dai protagonisti si incatenano a una voce – quella del carnefice – che ritorna, si insinua, e diventa filo da seguire per smascherare l’identità del rimosso.
Voice‑over – Voci fantasma
Strappato alla funzione didascalica, il voice‑over diventa ectoplasma inquieto. In O agente secreto la voce di Wagner Moura, evocata dal nastro, non commenta l’immagine: la incrimina. Bi Gan, in Resurrection, alterna lunghi silenzi ad intertitoli fossili, poi lascia entrare un tenue timbro femminile – coscienza oggettiva che si rivolge a noi spettatori, ricordandoci che la civiltà stessa, con il cinema, può collassare. Il risultato è una drammaturgia della parola formale: testimonianza, registrazione, referto. Ma anche monito.
Split screen – Puzzle dell’irreparabile
Lo split screen, resuscitato come Lazzaro estetico fin nei manifesti sdoppiati di Un uomo, una donna di Cannes 78, non serve più a mostrare due linee d’azione: frantuma l’immagine per rendere visibile la sua schizofrenia. Nella strategia di Cannes, è un espediente che ricorre con insistenza: strumento di ricomposizione di un mosaico impazzito, agglutinante dei frammenti di realtà e delle sue derive immaginali.


Sound of Falling
L’ambivalenza è evidente: da un lato riflette la frantumazione dell’esperienza contemporanea, dall’altro tenta disperatamente di ricomporla. Solo nella tensione tra i riquadri emerge il profilo distorto della verità storica, come se l’immagine stessa cercasse di ricostituirsi dopo la sua lacerazione originaria. In un’epoca dove l’immaginario è esploso in mille finestre simultanee, lo split screen forza lo sguardo a ricompattare il senso, a farsi archivio provvisorio del presente.
Danza – Coreografia tattile della ribellione
Quando la parola vacilla, il cinema parla per torsione muscolare. L’immagine danzante sequestra fisicamente lo spettatore, strappandolo alla comodità dell’astrazione. La ritmica ipnotica di Sirat pulsa come un mantra corporeo; l’esplosione epilettica di Yes di Nadav Lapid strattona la pupilla in un vortice di rabbia; in Alpha la danza scivola nel finale in sabba macabro dove eros e thanatos si confondono.


Renoir (2025)
Non sono deviazioni coreografiche: sono pugni cinetici che riaffermano la centralità della carne contro l’immaterialità liquida dell’immaginario contemporaneo. Il corpo, messo in stato di trance, diventa superficie di scrittura politica.
Grammatiche di resistenza
Questa rinascita di forme come il flashback, il voice-over, la danza e lo split screen non risponde a un intento puramente ornamentale, né si riduce a un gesto nostalgico. Essa segnala piuttosto un tentativo di re-istituire una relazione profonda fra immagine e soggetto, fra gesto cinematografico e corpo spettatoriale. I dispositivi formali si configurano come strumenti d’indagine: esplorano le stratificazioni della memoria, il modo in cui l’immaginario si è depositato nel tempo, producendo costellazioni di senso che attendono di essere rilette.
Non si tratta allora di cercare un’origine fissa o mitica, ma di tornare a interrogare i fondamenti visivi del nostro stare al mondo. L'immagine cinematografica, lungi dall'essere mera superficie riflettente, diventa campo operativo: luogo dove l’esperienza può essere rimontata, dove il soggetto può ridefinirsi nei confronti del tempo, della storia, dell’altro. In questa prospettiva, il cinema agisce non più come specchio, ma come interfaccia: non ci restituisce tanto ciò che siamo, quanto ciò che potremmo ancora diventare.
Addio al drone
Sul festival pesa un’assenza rumorosa: il drone – simbolo dello sguardo onnipotente – è quasi sparito. Al suo posto il carrello (Fuori di Mario Martone ne ha di bellissimi) e il primo piano rivendicano la fatica, la prossimità, la durata.


Fuori (2025)
Guardare da pochi centimetri significa accettare la vulnerabilità dello sguardo; è un gesto di ecologia percettiva che rifiuta la totalità algoritmica.
Un cinema necessario
Infine, una nota sulla politica dei formati: la selezione ha mostrato un’apertura massiccia al 16 mm (vedi Sirât) e a workflow ibridi pellicola/digitale. Non è nostalgia, è scelta estetica consapevole: il supporto diventa parte del discorso, non un feticcio. In sintesi, non solo nei temi affrontati e nei titoli premiati, ma anche nelle figure retoriche e nelle strategie formali, Cannes 78 ha segnalato l’urgenza di un recupero della realtà concreta, delle domande ineludibili del presente che si fanno interpellanza del passato. Flashback che scavano, voice-over che si corrodono, split screen che cercano di ricomporre ciò che è frantumato, danze che scrivono sulla pelle ciò che le parole non sanno più dire: non sono semplici espedienti, ma gesti fondativi di una nuova vecchia grammatica del visibile.
Ciò che emerge con forza è una tensione costante tra dispersione e ricomposizione, tra perdita di senso e tentativo di reinscrizione simbolica. Il cinema torna a interrogare il proprio statuto, non come riflesso della realtà ma come spazio di negoziazione tra immaginario e incarnazione, tra trauma e racconto, tra memoria e montaggio. Il carrello e il primo piano, contro la totalità algoritmica del drone, ci riportano a una visione umana, fallibile, prossima: segno che il cinema vuole ancora essere luogo di esperienza, e non solo di esposizione.
Nel suo farsi materia sensibile, il cinema di Cannes 78 suggerisce che solo un’immagine che sa farsi corpo, interfaccia, interruzione, può restituire complessità a un immaginario saturo di duplicati. È in questa complessità che si gioca la possibilità – estetica e politica – di una visione rigenerante.