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Albert Serra_CANNES©Óscar Fernández Orengo
Con Albert Serra il cinema si fa soglia: tra veglia e sonno, tra storia e carne, tra l’occhio e l’ombra. La terza edizione del Premio Le vie dell’Immagine – riconoscimento della Rivista del Cinematografo insieme a Giornate degli Autori, dedicato agli artisti capaci di muoversi trasversalmente tra i linguaggi visivi – rende omaggio a un autore che più di altri ha messo in crisi i confini, facendone un territorio di rivelazione. Dopo Shirin Neshat e Marjane Satrapi, il premio incontra oggi un artista che ha eletto la lentezza a forma della visione, il rischio a etica operativa, la provocazione a strumento di conoscenza.


Pacifiction - Un mondo sommerso - @Webphoto
Serra filma il tempo come fosse un volto. Non cerca la trama ma il respiro che la precede: l’attrito fra luce e tenebra, l’insistenza dei gesti, il silenzio che scava. Dai campi catalani di Honor de cavalleria al canto pastorale di Birdsong, dall’eros crepuscolare di Història de la meva mort al trono-diabasi di La mort de Louis XIV, fino al buio libertino di Liberté e alla febbre tropicale di Pacifiction, la sua opera procede per apparizioni e dissolvenze lente, come un rosario laico di icone stanche e magnifiche. La macchina da presa non «racconta», veglia; non spiega, custodisce. È lì che il suo cinema si fa anche spirituale: non per i soggetti sacri che talvolta affronta, ma per la fiducia nel mistero della durata, nella preghiera muta delle mani, nel chiaroscuro che restituisce dignità all’invisibile.


Els noms de Crist (2010) - @Webphoto
Poetico e insieme ferocemente concreto, Serra abita la storia come un campo magnetico. Rilegge i miti – i Magi, Don Chisciotte, Casanova, Luigi XIV – per ascoltare le incrinature del presente: la stanchezza del potere, l’oscenità del desiderio, la persistenza dei riti. In Pacifiction la politica vibra come un presentimento, radiazione senza epicentro: l’eco coloniale, il sospetto nucleare, la diplomazia come performance. In Tardes de soledad, la corrida diventa specchio di un paese e dei suoi fantasmi, dove il cerimoniale della morte interroga le nostre morali intermittenti. La provocazione, in Serra, non è mai posa: è disciplina dello sguardo, esercizio di libertà contro l’anestesia dell’abitudine.


Pomeriggi di solitudine - @Webphoto
Alla sala egli affianca il museo, alla proiezione l’installazione, al cinema la performance. Roi Soleil fa dell’agonia un gesto condiviso, un rito di attenzione; le opere per dOCUMENTA e per i grandi musei europei spostano i film nel territorio dell’arte contemporanea, dove l’immagine perde l’alibi del racconto e guadagna il coraggio della durata. L’eclettismo di Serra non è dispersione, ma coerenza: una sola ossessione, interrogata con mezzi diversi. La parola, quando arriva, sa essere tagliente; ma l’essenziale appartiene alla luce, alla sua feroce tenerezza.


La Mort de Louis XIV (2016) - @Webphoto
C’è, nella sua pratica, un audace senso dell’ospitalità: attori non professionisti, corpi non addestrati al linguaggio del cinema, paesaggi che non fingono. L’immagine accoglie e non addomestica; lascia che il mondo entri con le sue pieghe, le sue resistenze. Così nascono figure memorabili, attraversate da un soffio antico: sovrani mortali, libertini smarriti, emissari senza patria. L’attenzione al dettaglio – un respiro, un sudore, una piega del velluto – è il luogo in cui la poesia tocca la realtà, e la politica diventa un fatto di epidermide.
Con questo premio celebriamo un artista che ha restituito alla visione il suo tempo e il suo peso, che ha saputo trasformare l’ostinazione in stile, la fedeltà al rischio in metodo. Albert Serra ci chiede di guardare di più, di guardare più a lungo, di guardare meglio. È una richiesta esigente e insieme un atto d’amore: per il cinema, per l’arte, per il mondo che ancora – nelle notti interminabili e negli azzurri improvvisi – ci sorprende.