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You’ll Never Find Me - Photo Credit_ Carl Swart_ Copyright_ © 2023 Lot 14 Film Pty Ltd.22
La notte è scura, la tempesta violenta. Da qualche parte in un angolo remoto dell’Australia, ai margini della civiltà, una roulotte. Dentro un uomo solo, Patrick (Brendan Rock). Aspetta qualcosa che forse non arriverà mai. Occhi stanchi, mente consumata dal peso dei segreti. Fuori la natura si accanisce, ferocia biblica. L’acqua. Il vento. L’acqua batte sulle pareti sottili, come dita sottili e insistenti. Il vento urla come anime in pena.
Bussano alla porta. Una donna giovane (Jordan Cowan), bagnata fradicia e scalza, porta con sé un mistero più denso della notte stessa. Racconta una storia assurda: dice di essere arrivata correndo dalla spiaggia, che ha bisogno di un passaggio, forse di fare una telefonata. Chi è davvero questa figura silenziosa e inquietante? Una vittima innocente o una giustiziera divina? È capitata nel posto sbagliato? O troverà un inaspettato samaritano? Patrick apre. L’equilibrio fragile del suo rifugio si incrina. Da qui, l’esordio dei registi australiani Indianna Bell e Josiah Allen, You’ll Never Find Me, diventa un lento balletto di sospetto e paranoia, un gioco di tensioni soffocate che trascina lo spettatore in un vortice sempre più oscuro.
Poe, Lovecraft e l’Aussie Gothic
Un horror da caminetto. Che attinge alle radici gotiche di Edgar Allan Poe, alla vertigine cosmica di H.P. Lovecraft. Atmosfere dense, malsane, saturate d’attesa. Una paura che non si mostra, ma cresce. Si insinua. Horror australiano autentico. Immerso nel deserto umano dell’outback, terra mitica dove solitudine e follia si fanno sorelle. Un luogo che non è solo sfondo. È minaccia, stato mentale, condizione irreversibile. L’Aussie Gothic del film utilizza la tempesta in modo vicino al mito aborigeno del Serpente Arcobaleno, creatura che porta sia vita sia distruzione con la pioggia. Pur non citato esplicitamente, l’ambiente paludoso e la paranoia di Patrick verso ciò che “striscia fuori” estendono la simbologia serpentina e rafforzano il dialogo fra spiritualità occidentale e Dreamtime.


Lo stile di Bell e Allen è sobrio ma magnetico. Dominano toni cupi, cromie sporche, terre d’ombra, ruggine e ocra. Una tavolozza che guarda al Barocco, alle sue penombre dense, ai chiaroscuri che inghiottono i corpi e li espongono alla luce del giudizio. Poi esplodono i rossi e i gialli, improvvisi, come fendenti. Evocano il cinema giallo italiano – Bava, Argento – ma anche l’iconografia della passione, della flagellazione, del martirio. La luce definisce uno spazio sacrale, disturbato, in cui ogni colore è simbolo, ogni ombra è colpa. Anche il suono incide. Non più scricchiolii: un rombo continuo. Il cielo sembra in rivolta. Urla. Un’ira spaventosa.
Aspettando Godot
Il film dialoga apertamente con il teatro dell’assurdo, evocando Beckett e il suo Godot che mai giunge. Il caravan è un palcoscenico nudo: due sedie, un tavolo, un flacone enigmatico al posto dell’albero. Lo spazio diventa non-luogo, chiuso su se stesso, dove l’esterno – il mondo, il futuro – resta soltanto rumore, eco lontano.
I personaggi si muovono in dialoghi circolari, vuoti, come Pozzo e Vladimir. I monologhi di Patrick, "paterni" e inconcludenti, somigliano alle tirate di Lucky: parlano di senso di colpa, di un dio assente, di un domani che non cambia mai. Il montaggio indugia su silenzi e ripetizioni, generando la stessa comicità sinistra del teatro dell’assurdo.
Anche la relazione fra i due personaggi sfugge a definizioni stabili. I ruoli di protettore e protetta slittano, si confondono. Non è chiaro chi attenda cosa o chi. Entrambi aspettano una terza figura che dia senso alla loro presenza. Entrambi sono Godot e Vladimir insieme. Ma nessuna liberazione arriva.
E quando sembra arrivare, non porta salvezza. Beckett negava la catarsi. Bell e Allen la ritardano, la spostano, poi la trasformano in shock visivo. Il risultato è un Godot gotico, dove la malinconia esistenziale si fonde con una minaccia fisica imminente. Dove il tempo si dilata. Dove ogni speranza si congela in una sospensione che pesa come una condanna.
Cosa attendono realmente questi personaggi? La redenzione, la vendetta o una qualche forma di agnizione soprannaturale e spaventosa? Un riconoscimento che non salva, ma condanna. Un’apparizione che non consola, ma mette a nudo la verità più inconfessabile.
La furia delle Eumenidi
La donna non ha nome. È la Visitor. Una figura senza identità anagrafica, ma carica di senso arcaico. Assume lentamente sembianze da Erinni, antiche divinità della vendetta. I suoi capelli bagnati si trasformano in simboli viventi, serpi oscure che preannunciano punizione e giustizia. La sua presenza diventa astratta, quasi soprannaturale. Non è una persona, è un sintomo. Un segno. Un simbolo di colpa atavica, che Patrick sembra portare incisa sotto la pelle, in attesa che qualcosa – o qualcuno – la faccia emergere. L’insistenza sul bussare ripetuto – colpi che scardinano la soglia morale prima ancora di quella fisica – riecheggia l’ingresso inesorabile delle Furie nell’Eumenidi di Eschilo.


You’ll Never Find Me - Photo Credit_ Carl Swart_ Copyright_ © 2023 Lot 14 Film Pty Ltd.22
In un altro mito, il mito di Baùci e Filèmone (Ovidio, Met. VIII), due dèi travestiti puniscono chi nega l’ospitalità. Bell & Allen invertono la lezione: l’ospite può essere carnefice, e il padrone di casa un potenziale martire. La stanza unica del caravan diventa uno ἱερόν profanato, dove ogni gesto domestico – scaldare l’acqua, accendere la stufa – assume valore sacrale prima di distorcersi in minaccia. Ogni gesto della Visitor, ogni parola appena sussurrata, richiama i rituali di purificazione e castigo. Il tempo si sospende. Il mito si riscrive in un caravan assediato dalla pioggia.
D’Apocalisse e di altri simboli
Anche il sottotesto religioso è fortemente presente e disturbante. La “tempesta che potrebbe far crollare il tetto” delimita fin dal primo fotogramma una cornice apocalittica: lampi, blackout e l’acqua che assedia il caravan ricordano il Diluvio universale e i “vasi d’ira” dell’Apocalisse di Giovanni, anticipati iconicamente dai flaconcini di liquido trasparente che Patrick maneggia con la cautela di reliquie sacrali. Questa acqua-catastrofe non purifica ma corrode, facendo da contrappunto al titolo: se l’occhio divino “trova” sempre l’uomo (Sal 139), qui il buio e la pioggia sembrano proteggere il peccato anziché svelarlo. Il knocking della Visitor riecheggia Ap 3,20 (“Se qualcuno ode la mia voce e mi apre la porta…”). Ma la dinamica si rovescia: chi apre rischia la dannazione, non la salvezza. L’intero film è liturgia di soglia: scarpe bagnate che restano fuori, corpo nudo da asciugare (battesimo rovesciato), tavola imbandita con zuppa e whisky che rievoca al contempo l’Ultima Cena e l’ospitalità abusata di Lot a Sodoma. Il mancato scambio di nomi – l’uomo è Patrick (richiamo al santo che scaccia i serpenti), lei è solo Visitor – sottolinea l’ambiguità angelica/demoniaca dell’ospite. Questi simboli cristiani distorti aprono uno spazio di riflessione profonda su peccato e redenzione, attesa messianica e condanna apocalittica. Cosa significa allora aprire quella porta? È un atto di misericordia o un’ammissione di colpa definitiva?
Molti pregi, un grande difetto
La forza del film risiede nei dialoghi allusivi, filosofici, capaci di mantenere un’ambiguità straordinaria fino al terzo atto. L’equilibrio fra vittima e carnefice si tiene in tensione costante, mai pacificata. Anche la regia contribuisce: precisa, essenziale, con una gestione della suspense che aggiorna e ribalta il cliché dello “straniero alla porta”. Bell e Allen dimostrano una sorprendente maturità formale e concettuale, riuscendo a imprimere una forte identità autoriale nonostante il budget contenuto. La fotografia di Maxx Corkindale amplifica lo spazio minimo del caravan fino a farne un paesaggio mentale, una cella interiore.


You’ll Never Find Me - Photo Credit_ Carl Swart_ Copyright_ © 2023 Lot 14 Film Pty Ltd.22
Il suono – vero antagonista – è costruito come un organismo vivente. Ruggisce, sussurra, minaccia. Non accompagna: agisce. Le performance di Brendan Rock e Jordan Cowan sono magnetiche. I due attori scivolano con naturalezza da vulnerabilità a minaccia, da cura apparente a inquietudine esplicita.
Eppure, nel terzo atto il film inciampa. Il twist, pensato per destabilizzare, forza la mano, sacrificando parte dello sviluppo interiore dei personaggi per un effetto sorpresa meno necessario di quanto sembri. I monologhi si fanno talvolta ridondanti. Alcune piste aperte – il sottotesto cosmico, l’allusione a un passato condiviso – vengono abbandonate, lasciando spiragli che anziché interrogare sembrano chiudersi in sospensione. La portata limitata – un solo set, due personaggi – rafforza l’intimità drammatica ma rischia di far percepire l’opera come un corto esteso più che un film compiuto.
Poteva esserci un’altra via, più coerente con la complessità coltivata fino a quel punto?
Difficile. Malgrado questa lieve forzatura finale, l’opera rimane originale e potente. Bell e Allen scavano nella psiche umana con sensibilità rara, mostrandoci il male che si annida nella quotidianità, in attesa paziente che qualcuno bussi alla porta, facendo emergere la verità nascosta.
You’ll Never Find Me ibrida l’ “home-invasion” (il visitatore indesiderato) con il survival minimalista (The Lighthouse, 10 Cloverfield Lane) e suggestioni lovecraftiane. L’opera sovverte la dinamica classica della “damsel in distress”: l’ansia di predazione si alterna, scivola da un corpo all’altro, rendendo il punto di vista instabile, vertiginoso. In assenza di gore esplicito, la tensione nasce dalla psiche, dal rumore, da ciò che non si dice. È un horror che si muove in punta di piedi nel territorio dell’elevated post-2010 – Aster, Eggers – ma con piedi ben piantati nella polvere dell’exploitation australiana: spazi deserti, anti-eroi borderline, umanità spezzata.
Un esordio coraggioso, inquietante, meritevole di attenzione.