Da qualche giorno è nelle nostre sale un horror australiano, Bring Her Back. La critica lo ha accolto positivamente, il pubblico ha risposto con discreto entusiasmo (terzo incasso della settimana), e chi lo ha visto può testimoniare che il film svolge magistralmente il compito principale del suo genere: spaventare.

Questo film conferma non soltanto l'eccellente stato di salute del cinema horror contemporaneo, ma ribadisce come l'Australia sia diventata negli ultimi quindici anni il vero genius loci del genere. Film recenti come You’ll Never Find Me e persino il meno riuscito Dangerous Animals testimoniano questa fase di straordinaria fecondità creativa. La domanda da porsi è dunque inevitabile: perché proprio l'Australia?

Chi non l’avesse ancora visto si fermi qui, perché d’ora in avanti faremo spoiler.

Bring Her Back
Bring Her Back

Bring Her Back

Bring Her Back ruota attorno al dolore di una madre che, per riportare in vita la figlia perduta, utilizza una reliquia che permette di trasferire il suo spirito nel corpo di un’altra bambina. Per farlo utilizza un vettore, un altro bambino che diventa il contenitore temporaneo dello spirito della figlia perduta. Questo trasferimento avviene attraverso un rituale stregonesco messo in pratica dalla donna (l’ottima Sally Hawkins). Un atto disperato di duplicazione (appreso da una registrazione su un vecchio vhs), di reincarnazione tecnologica e affettiva. La novità è che il soprannaturale non è più religioso, demoniaco o satanico, ma al limite numinoso, probabilmente secolare, quasi certamente mediale.

Se prendiamo altre opere australiane recenti, ci accorgiamo che c’è qualcosa di comune. Bring Her Back, insieme a Talk to Me (anch’esso diretto dai fratelli Philippou), così come Relic di Natalie Erika James e The Babadook di Jennifer Kent, pur nella loro varietà stilistica e narrativa, condividono l’idea di una possessione mediata da un dispositivo rituale. La mano-artefatto di Talk to Me, il libro-programma di The Babadook, la casa-labirinto di Relic, e il bambino muto di Bring Her Back costituiscono figure-dispositivo attraverso cui si compie il passaggio dello spirito: oggetti liminali, portali rituali.

Talk To Me
Talk To Me

Talk To Me

Come scrive Victor Turner: "Il rituale è lo spazio di soglia, l’interstizio fra il noto e l’ignoto". In questi film, il rituale non è più religioso o metafisico, ma procedurale e tecnico. Un’operazione di upload, download, aggiornamento. È questa precisione tecnica, quasi clinica, che rende così peculiare la possessione contemporanea nell’horror australiano, diversa dall'antico concetto di possessione religiosa che implicava la presenza di un demone esterno o maligno, e un soggetto passivo da purificare o espellere.

Qui, invece, l'ospite è spesso ambiguo, integrato, tecnologico, una presenza che sembra provenire da una dimensione secolare piuttosto che ultraterrena. Non si tratta di una negazione del religioso, ma di una sua alterazione formale e simbolica: l'acqua battesimale in Bring Her Back, ad esempio, non è più lavacro dal peccato né diluvio apocalittico, ma assume le sembianze di una placenta, da cui rinasce non una vita nuova ma una vita vecchia, riabilitata, zombificata. Questa commistione tra arcaico e tecnologico – tra archetipo e dispositivo – è uno degli elementi più affascinanti del nuovo horror australiano: una miscela che riflette le contraddizioni del nostro tempo, diviso fra spinte regressive e sogni di progresso, fra culto delle origini e incubi digitali.

Babadook, @Webphoto
Babadook, @Webphoto

Babadook, @Webphoto

Non è casuale che tutto ciò trovi radici nella sensibilità australiana, dove i rumori coloniali e il trauma delle generazioni sottratte sembrano riaffiorare sotto forma di un’inquietudine costante: l'ospite non invitato, il corpo abitato da altri, la terra rubata che reclama memoria. La simbiosi tra corpo e territorio, la carne in macerazione, i colori verdastri e lividi che richiamano un’estetica digitale corrotta – tutto questo è una precisa cifra stilistica che caratterizza queste opere.

Ma questi film funzionano maledettamente bene anche fuori dai confini australiani. Quale angoscia latente, quale immagine perturbante ci stanno offrendo, al punto da intercettare un immaginario globale?

Forse la risposta sta nel sottotesto tecnologico e post-umano che permea questi horror. La paura contemporanea, più che la possessione religiosa tradizionale, riguarda il furto dell'anima da parte di una tecnologia sempre più invasiva. La mano-joystick, la reliquia-token, la casa-mainframe: sono simboli di un'anima rubata e reinstallata in corpi-macchina, in nuovi hardware viventi. È questa la paura che ci agita: non essere più padroni di noi stessi, diventare dispositivi, essere copiati, riprogrammati.

Relic
Relic

Relic

Stilisticamente, questi film adottano un montaggio ellittico, una frammentazione narrativa che disorienta e disturba. La carne diventa oggetto di insistente degradazione, i confini tra realtà e immaginazione collassano continuamente, come nel caso delle crepe visive di Bring Her Back: la cecità della bambina protagonista, gli specchi infranti, lo specchietto laterale dell'auto che continua a cadere, simboli di una realtà riflessa, duplicata, sempre sul punto di rompersi.

Questi horror australiani ci stanno dicendo qualcosa che non vorremmo ascoltare. Fintanto che continueremo a relegarli nella dimensione del puro intrattenimento, resteremo miopi davanti al perturbante avvertimento che portano con sé: non temiamo più demoni e fantasmi, ma il nostro corpo-ospite, la nostra identità copiata, e l'anima installata in un sistema che non ci appartiene più completamente. La vera cecità è proprio la nostra, non quella della piccola protagonista di Bring Her Back. La vera perdita di voce è quella che scegliamo ogni volta che ignoriamo ciò che l'horror, australiano e non, cerca disperatamente di dirci.