Quando Zach Cregger sostiene, con una chiarezza quasi sconcertante, che commedia e horror funzionano esattamente allo stesso modo – cioè tutto tempismo e sovversione, puro e semplice disorientamento dell’aspettativa – sta di fatto enunciando il suo personale manifesto poetico, delineando (in una manciata di parole appena) la strategia narrativa su cui si regge tutto il suo cinema. Ed è una strategia molto seria, anche quando ridiamo di gusto.

JULIA GARNER as Justine in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures
JULIA GARNER as Justine in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures

JULIA GARNER as Justine in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures
 

Weapons, che arriva subito dopo il ben più che apprezzato Barbarian, replica questa logica del setup-ribaltamento con una specie di fervore metodico, orchestrando continui cambi di tono e inversioni repentine di traiettoria che ridefiniscono l’idea stessa di paura: non più un banale jumpscare (per quanto generosamente presente), ma piuttosto un'esplosione improvvisa, quasi gioiosa, di sorpresa. Forse, riflettendoci sopra, bisognerebbe iniziare a definire questa estetica liquida, indefinibile, prendendo la black comedy e rovesciandola in una specie di white horror – bianco non solo come tonalità della pelle, ma come pantone politico predominante nell’America di Trump, una coloritura che Cregger, originario di Arlington, Virginia, potrebbe trovare più che adeguata.

JOSH BROLIN as Archer in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures
JOSH BROLIN as Archer in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures

JOSH BROLIN as Archer in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures
 

Nonostante Weapons abbia un budget e una portata dichiaratamente mainstream, Cregger continua a presentarsi con atteggiamento anti-sistema, proclamando con modestia studiata che l’unica cosa che davvero gli importi è ciò che entra dentro l’inquadratura. Tuttavia, l’innocenza non è il suo forte, e i suoi film non nascondono affatto riferimenti politici ben precisi, tutt’altro che sotterranei. Se Barbarian, infatti, era stato etichettato come il film "horror del privilegio maschile", una critica pungente alla cultura dello stupro, Weapons si rivela più intimo, più personale (del resto il film nasce dall’elaborazione del lutto per l’amico e collaboratore Trevor Moore), senza però rinunciare a raccontare una violenza che non è soltanto esterna, ma endemica, profondamente radicata nella cultura e nella famiglia americana.

La storia è intrigante senza essere mai esplicita: diciassette bambini scompaiono nel nulla alle 2:17 del mattino, gettando nella paranoia e nel sospetto un’intera comunità suburbana, e costringendo i personaggi a rivelare lati oscuri e insospettabili.

CARY CHRISTOPHER as Alex in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures
CARY CHRISTOPHER as Alex in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures

CARY CHRISTOPHER as Alex in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures

La struttura narrativa che Cregger sceglie è quella della vetrata frammentata, à la Magnolia di Paul Thomas Anderson (lo ammette lui stesso senza troppi giri di parole): sei capitoli autonomi dedicati ciascuno a un personaggio diverso, che come segmenti di un puzzle convergono in un grand finale visivamente esplosivo. Ma i riferimenti estetici e letterari abbondano e s’intrecciano tra loro: c’è Stephen King nella descrizione precisa della provincia americana, con la sua paura che serpeggia dietro il perbenismo suburbano; c’è Sam Raimi nell’uso iperbolico della violenza fisica e negli effetti artigianali; ci sono echi di Prisoners di Villeneuve e della cupezza da fiaba nera dei Grimm.

Lo stile che Cregger, affiancato dal suo direttore della fotografia Larkin Seiple, imprime al film è immediatamente riconoscibile: la macchina da presa scivola e corre, percorre corridoi, vialetti e boschi, non in linea retta ma curvando e piegandosi continuamente su se stessa, seguendo traiettorie serpentine che finiscono per ipnotizzare, catturando lo spettatore in una danza di suspense e sorpresa. È la forma visuale dell’“hairpin turn”, una sorta di tornante narrativo che culmina nello spostamento dal realismo cupo della prima parte a una svolta volutamente "campy" nella seconda, dominata dalla zia Gladys (una magnifica Amy Madigan), che riesce con sorprendente naturalezza a coniugare humour grottesco e autentico terrore.

JULIA GARNER as Justine in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures
JULIA GARNER as Justine in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures

JULIA GARNER as Justine in New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures
 

Il cast è solido e ben calibrato: Julia Garner regala una delle sue interpretazioni migliori, in bilico fra fragilità e determinazione; Josh Brolin incarna la rabbia paterna con una fisicità palpabile e dolorosa. Ad accompagnarli, una colonna sonora che alterna bassi che scuotono letteralmente lo spettatore e percussioni metalliche.

Cregger preferisce una fisicità ruvida, palpabile: evita il più possibile la CGI, preferendo effetti pratici che rimandano all’estetica handmade di Raimi. Così, ferite, sangue, lattine che diventano mazze improvvisate e bonsai trafitti da chiodi sono creati sul set, con un realismo che amplifica la viscerale sensazione di disagio e sgomento.

A scene from New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures
A scene from New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures

A scene from New Line Cinema’s “Weapons,” a Warner Bros. Pictures release. Photo Credit: Photo Courtesy Warner Bros. Pictures
 

Ma allora, in definitiva, di cosa parla Weapons? Fondamentalmente del fatto che ogni persona, ogni oggetto, persino i più innocui, possano trasformarsi in armi devastanti nelle mani sbagliate, diventando metafore della radicalizzazione domestica e della manipolazione politica. È vero che, rispetto a Barbarian, il film sceglie di mantenere meno esplicito il suo legame con l'America trumpiana (nonostante immagini evocative come le tragedie scolastiche e i riferimenti al complottismo di QAnon). Ma al livello più profondo, ciò che emerge davvero sono i traumi generazionali dell’America, rappresentati simbolicamente dalla silhouette del bambino che corre con le braccia spalancate (un chiaro rimando visivo alla famosa foto della Napalm Girl), evocando le guerre perdute dell’infanzia, e dal bonsai, la cui crescita forzata rappresenta la volontà della società di "potare", controllare e modellare brutalmente le proprie generazioni future.

Si potrebbe continuare ancora, esplorando la numerologia sinistra (il 6 inciso sulla campanella come rimando ai segmenti narrativi e al simbolismo biblico del 666), o l’iconografia pop della lattina di zuppa alla Warhol, che rivela la corrosività del consumismo americano. Perché i film di Zach Cregger sono, in fin dei conti, congegni ben più complessi di quanto non appaiano inizialmente, senza che questa complessità limiti mai il piacere viscerale, questo sì splendidamente infantile, della visione.