Nel magico e medioevale regno di Rosas (un’isola incastonata dal Mediterraneo), l’adolescente Asha, orfana di padre, sogna di diventare assistente del magnetico Re Magnifico. Ammessa nelle stanze regali del castello, scopre, però, la perfidia del sovrano che ha ammassato i sogni dei sudditi (nonno e madre di Asha compresi) nella volta del soffitto, impendendo loro di realizzarli, quindi di realizzarsi.

Tra la rabbia e l’amarezza divisa con il fido capretto Valentino (Amadeus gli presta la voce nella versione tricolore del film) l’eroina s’imbatte nei poteri di una stella, Star appunto: uno scrigno di energia cosmica accorso in suo aiuto, l’oggetto magico con cui la ragazza può sfidare il Re per ridare dignità e libertà agli abitanti del regno.

Non manca nessun topos favolistico al 62º classico Disney, il film del centenario della casa di Topolino, confezionato scaltramente come ponte – artigianale e digitale, tradizionale e algoritmico - tra la tradizione e la modernità per sbancare il botteghino natalizio  (l’arrivo nelle nostre sale è fissato il 21 dicembre).

Se i temi sono ormai circolari e secolari (la necessità vitale di sognare, di aiutare gli oppressi, di sconfiggere il Male realizzando sé stessi), recente (non nuova) è l’inclinazione al femminile della storia: siamo dalle parti di Rapunzel, diretto non a caso dalla stessa coppia che si piazza dietro la cinepresa di questo film: il premio Oscar Chris Buck e Fawn Veerasunthorn.

Tornano, per di più, i consueti inserti musicali (non tutti orecchiabili), e la patina retró dell’animazione in bilico tra fondali disegnati a mano, animazione 2D, ammicchi e citazioni al mare magnum Disney: da Biancaneve a Bambi, senza dimenticare Cenerentola, La bella e le BestiaPinocchio e Peter Pan che si concede pure un cameo sul finale. È, però, l’inclinazione di genere della sceneggiatura (Jennifer Lee anche produttrice esecutiva, con Allison Moore) a incuriosire per le sue intenzioni discorsive, attualizzanti, perfino politiche, nonostante i registi le neghino.

L’afro-discendente (d’obbligo per cause hollywoodiane di multiculturalità superiore) Asha, infatti, è l’anti Cenerentola che trasforma la subalternità di genere e di classe, in indipendenza: pur nel desiderio di ascesa sociale, non vuole sposare il magnetico Re, anzi non desidera proprio maritarsi. E anche la Regina Amaya la imiterà, preferendo la lotta egualitaria al matrimonio reale.

Perché Asha è il grimaldello (prima inconscio, poi conscio) con cui un popolo vessato cerca di liberarsi da un potere gerarchico e oppressivo perché maschiocentrico e viceversa. Effettivamente, nonno di Asha a parte, gli uomini di questo nuovo multiverso Disney sono o assenti, o patetici, o ridicoli o smodati (o tutte e tre le ultime cose insieme).

Wish
Wish

Wish

Potere alle donne, dunque, contro un sistema dispotico, piramidale, secolare. Dietro il quale, ecco spuntare, in filigrana, le storture della società algoritmica: Rosas è una comunità pacifica, in cui un Potere suadente preordina e asseconda, dove desideri e sogni di ognuno sono conosciuti fin nel dettaglio, custoditi e consigliati per te da un’oligarchia che fa di tutto per (non) realizzarli, sfornando sempre nuovi stimoli a una felicità irraggiungibile.

Un potere adagiato sulla dipendenza sperante, sulla subordinazione consenziente. Make a Wish, e un Re te lo ruba, impedendoti - a parte rari casi - di realizzarlo, ma raccontandoti e convincendoti del contrario.

Un film, dunque, multiforme e multistrato: semplice favola multiculturale, riuscita commedia ottimista, gradevole musical, classico romanzo di formazione, ma anche arguto, insospettabile pungolo di analisi verso dislivelli, disuguaglianze e contraddizioni del presente.  E chissà quanto involontario.