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Waking Hours (2025)
Fuochi che tremano ai margini del bosco, corpi che appaiono e scompaiono come ombre intermittenti. In lontananza, il rumore dei colpi d’arma da fuoco. Più vicino, un muro di metallo tagliente che segna l’inizio dell’Europa. Waking Hours, primo lungometraggio documentario di Federico Cammarata e Filippo Foscarini, ci porta nella zona di frontiera tra Bosnia, Serbia e Croazia, in quell’interregno notturno in cui un clan di passeur afghani attende, immobile e vigile, il momento di accompagnare i migranti oltre il confine.
Il film è costruito come un’esperienza sensoriale radicale. La frontiera non è soltanto un luogo, ma un tempo sospeso, un “stato dell’essere”: la notte diventa spazio metafisico in cui il confine è percepito prima che visto, attraversato prima ancora che superato. Il lavoro visivo di Cammarata è radicale: filmare il nero, affrontare il buio come materia pittorica. La notte diventa tela, la luce del fuoco e della luna i soli strumenti per incidere forme nel vuoto. C’è una qualità pittorica che richiama certe tele caravaggesche, un contrasto netto tra ombra e luce che restituisce l’idea di corpi in bilico, sempre sul punto di sparire. Il confine, più che essere mostrato, è evocato attraverso questi contrasti: non un muro concreto, ma un segno invisibile che abita il buio.


Waking Hours (2025)
Parallelamente, Foscarini costruisce un paesaggio sonoro ipnotico, fatto di spari lontani, fruscii, respiri, rumori che sembrano vibrare sotto pelle. Il suono, più ancora dell’immagine, scandisce il tempo dell’attesa e restituisce la tensione costante che abita questi spazi. Non si tratta di cronaca, ma di un’esperienza immersiva: lo spettatore viene trascinato dentro un’attesa che non ha esito, che si ripete all’infinito, e che diventa simbolo di ogni condizione di sospensione forzata.
Ne nasce un’opera che rifugge la cronaca per trasfigurare l’attesa in esperienza cinematografica pura. Non ci sono interviste, non c’è spiegazione: l’immersione è totale, rigorosa, fino a far percepire il confine non come una linea geografica ma come dispositivo di sorveglianza, strumento politico che trasforma i corpi in presenze invisibili. Qui risuona un’eco orwelliana, non tanto nella declinazione ideologica, quanto nella consapevolezza che ogni limite fisico è anche un atto di potere.
Se a tratti il rigore formale rischia di irrigidire il flusso, l’esperienza complessiva mantiene un’intensità rara. La scelta di sottrarre e ridurre, di insistere sul buio e sulla ripetizione, può spiazzare, ma restituisce il senso dell’attesa interminabile di chi vive in questo limbo. È un cinema che non cerca di “spiegare” ma di far sentire sulla pelle il peso di un confine che è insieme materiale e simbolico.


Waking Hours (2025)
Con Waking Hours, Cammarata e Foscarini segnano con chiarezza una poetica: la frontiera come spazio cinematografico, l’attesa come tempo del film, la notte come materia visiva. È un esordio che non cerca compromessi, ma si affida alla forza di un’esperienza radicale. E proprio quando sembra che tutto si sia chiuso, arriva la sequenza finale: i profughi che corrono verso la salvezza, inseguiti dai persecutori, ripresi da una telecamera a infrarossi. Corpi ridotti a sagome fantasmatiche, bianche nel nero assoluto, figure senza volto e senza nome. È l’ultimo fotogramma a restare inciso: un’umanità in fuga, trasfigurata in apparizione spettrale, che dice più di ogni parola. Non soltanto un confine geografico, ma un destino che sospende vite intere tra la luce e il buio, tra la speranza e l’annientamento.