Una coppia decide di lasciarsi e organizza una festa: la commedia del rimatrimonio secondo Jonás Trueba con profondità metatestuale e travolgente leggerezza. In anteprima italiana a La Nueva Ola
Si intitola Alla ricerca della felicità, il leggendario saggio di Stanley Cavell sulla cosiddetta “commedia del rimatrimonio”, quel filone hollywoodiano dedicato ai tentativi di riunire una coppia dopo una separazione. “Solo coloro che sono già sposati si possono autenticamente sposare” scrive Cavell, che incentra la questione sul tema della ripetizione: l’obiettivo di quei film, infatti, è far sì che i protagonisti tornino a un particolare momento della loro passata vita comune, riprendendo un discorso interrotto.
C’è un’evocazione di Søren Kierkegaard (citato), che sulla ripetizione ha scritto un’opera fondamentale: “Senza la categoria di reminiscenza o ripetizione, la vita intera svanisce in un rumore vuoto e inconsistente”. Quella di Cavell è una delle riflessioni più fortunate sviluppate sul rapporto tra cinema e filosofia, nonché tra quelle che hanno maggiormente affascinato coloro che si sono avvicinati al genere – che Cavell, di fatto, ha normatizzato – per ripensarlo all’interno e restituirlo con autonomia.
Trueba, un romantico che crede nella commedia e sa mettersi in ascolto dell’altro, elegge il ciondolare a movimento perpetuo e il limbo a spazio nel quale fluttuare, torna al modello del rimatrimonio e, in apparenza, ne ribalta lo schema. A quindici anni dall’esordio (
Todas las canciones hablan de mí), mette al centro una coppia che, dopo quindici anni insieme, decide di separarsi amichevolmente. Sebbene tutti sostengano che per due come loro l’addio non è una possibilità (non è che siamo soprattutto noi ad aver bisogno di loro e di un amore così?), la regista Ale e l’attore Alex organizzano una grande festa con amici e familiari per celebrare la separazione e intanto portano avanti la realizzazione di un film. In cosa consiste la loro avventura di coppia? È nella riunione il segreto della felicità?
Giunto alla piena maturità espressiva dopo una serie di splendidi film corsari (titoli esplicativi:
Los ilusos,
Los exiliados románticos,
Tenéis que venir a verla) e un raffinato ritratto femminile (
La virgen de agosto), Trueba gioca con la finzione e fa a nascondino con la realtà, tesse un profondo e travolgente discorso metatestuale in cui il senso del fare cinema sta nel tenere a mente il grande avvenire alle spalle, nel mettersi in ascolto dell’altro, nel dare consistenza epica al quotidiano degli affetti.
Le professioni dei protagonisti ne
suggeriscono l’orizzonte, la tensione poetica e pratica a elevare il provvisorio ad assoluto, in quell’estate che è stagione preferita di un autore leggero e malinconico che ha interiorizzato la lezione di Rohmer (e di Truffaut, Linklater, Tsai). E se gli interni sembrano dei veri e propri set, in primis lo splendido appartamento de
lla coppia dove i libri (veri feticci di Trueba) rappresentano i correlativi del lessico amoroso, gli esterni riconsegnano l’idea di una città-rete, una comunità che tiene insieme tutti allontanando lo spettro della solitudine. È
Volveréis esalta una visione comunitaria fatta di affetti e complicità, dai feticci Vito Sanz e Itsaso Arana (e Francesco Carril, altro aficionado e mezzo cuore di
Dieci capodanni, che con il film ha più di un’affinità) a Fernando, il regista vincitore dell’Oscar per
Belle Époque, padre del regista e che qui interpreta... il padre della regista.