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So cosa hai fatto © 2024 CTMG, Inc. All Rights Reserved. **ALL IMAGES ARE PROPERTY OF SONY PICTURES ENTERTAINMENT INC. FOR PROMOTIONAL USE ONLY. SALE, DUPLICATION OR TRANSFER OF THIS MATERIAL IS STRICTLY PROHIBITED.**
Dal requel (sequel+reboot) di So cosa hai fatto non ci aspettavamo certo l’intelligenza metatestuale di Scream, né tantomeno il vintage imperituro di Halloween. Ma da qui ad aggiudicarsi, e con netto distacco, il titolo di horror più fesso e superfluo dell’estate cinematografica, ne passa. Invece è proprio quello che è accaduto qui. Immaginiamo per ragioni di bilancio, con la produzione che avrà deciso di risparmiare proprio sulla scrittura, affidando forse alla distratta mano di un’intelligenza artificiale il compito di rielaborare una sceneggiatura che avrebbe necessitato almeno di un paio di revisioni umane, se non altro per evitare imbarazzanti cadute di tensione, improbabili incastri narrativi e clamorose banalità.


In questo requel, però, non è soltanto la scrittura a vacillare. Anche il cast sembra assemblato senza troppa convinzione: Madelyn Cline, Chase Sui Wonders e Jonah Hauer-King, nonostante la loro evidente fotogenia, appaiono ancora incapaci di conferire profondità o autentici brividi ai loro personaggi. Non aiuta certo il maldestro tentativo di recuperare, a distanza siderale di ben ventisette anni, Jennifer Love Hewitt e Freddie Prinze Jr., resuscitati non per reale esigenza narrativa ma per un malinconico effetto nostalgia che, invece di risollevare il film, ne accentua tristemente i limiti. Del resto, come ricorda proprio la Love Hewitt nella battuta più azzeccata del film, “La nostalgia è sopravvalutata”.


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(Brook Rushton)Ma la questione più spinosa resta l’inquadramento storico e culturale del film. Più che uno slasher fuori stagione (e non parliamo dell'estate), appare irrimediabilmente fuori tempo massimo, come un fossile cinematografico disinterrato da un’epoca in cui le regole d’ingaggio del genere e la sua presa sull’immaginario erano altre. La regia di Jennifer Kaytin Robinson, che tenta invano di catturare quel misto di paura, colpa e punizione del film originale del 1997, manca completamente di mordente e di coraggio, finendo per appiattirsi su una sequela prevedibile di omicidi privi di tensione e pathos.


In confronto al primo film diretto da Jim Gillespie e scritto da Kevin Williamson, che seppur limitato riusciva a incarnare con un certo equilibrio la moralità torbida e l’ansia generazionale di fine millennio, questa nuova versione risulta superficiale anche nelle sue intenzioni più elementari. Il precedente aveva, se non altro, il merito di aver colto con arguzia la colpa della giovane borghesia benestante d’America e di aver rinvigorito, almeno in parte, la svolta meta-cinematografica del genere slasher inaugurata da Scream. Qui invece, l’immaturità dei protagonisti – bambinoni alle prese con futili crisi sentimentali e ansie da prestazione sessuale – è trattata con una tale svagatezza da sembrare al più una parodia involontaria.


Se c’è un interesse residuo nel film, è la testimonianza involontaria del profondo cambiamento che ha attraversato quella stessa borghesia suburbana in questi decenni. I suoi giovani araldi appaiono oggi più impegnati nella skincare, nella fluidità relazionale e nell’abuso di sostanze alcoliche che toccati dal rimorso, dalla fine altrui, dalla paura della morte o da un qualsiasi vago sentimento del tragico. Una superficialità totale che sarebbe stata forse interessante esplorare criticamente, se solo il film ne avesse avuto il coraggio o la lucidità. Al contrario, ciò che vediamo è una totale incapacità non solo di affrontare il dramma, il lutto, la violenza con qualsiasi forma di gravità o introspezione autentica, ma anche la sua negazione come segno di un’involuzione psicologica e morale.
Certo, qualche spettatore svogliato di mezza estate potrebbe ancora accontentarsi di un paio di jumpscare a buon mercato e qualche banale twist narrativo. Ma chiunque cerchi nell'horror – anche senza voler per forza scomodare l'elevated – qualcosa di più della semplice e dimenticabile mediocrità, farebbe bene a rivolgere lo sguardo altrove. O, ancora meglio, a riprendere in mano l’originale del 1997, riscoprendo almeno quel minimo di freschezza che a questo triste sequel sembra completamente estraneo.