Habitué della Mostra di Venezia, sia in veste di cosceneggiatrice quando accompagna i lavori del compagno Brady Corbet (L'infanzia di un capo, Vox Lux, The Brutalist) che di regista (Il mondo che verrà, 2020), Mona Fastvold ritrova il concorso del Festival con The Testament of Ann Lee, favola epica ispirata alla vita della leader spirituale degli Shakers, movimento religioso radicale nato alla fine del XVIII secolo.

“Sono cresciuta in una famiglia laica, eppure le profezie di Ann Lee – per quanto inverosimili – mi hanno profondamente commossa. Non perché condivida la sua fede, ma perché riconosco in lei un desiderio di giustizia, trascendenza e grazia per tutti”, dice la regista norvegese.

Che prosegue sul sentiero del period drama (Il mondo che verrà era ambientato a metà Ottocento) per portare sullo schermo la vicenda di Mother Lee (interpretata da Amanda Seyfried) – e dei suoi primi seguaci –dapprima accennando alle sue origini (nata a Manchester nel 1736, seconda di otto fratelli), passando per il matrimonio (e i quattro figli morti, ognuno dei quali non superò il primo anno di vita) e l’approdo alla Wardley Society, gruppo di culto quacchero fondato a Bolton da Jane e James Wardley. Poi, nella seconda parte del film, ci si concentra sul viaggio verso New York, quando nel 1774 convinse marito e fratello e altri sei seguaci a trasferirsi negli Stati Uniti d'America, dove fondarono un insediamento nelle foreste di Niskeyuna.

"Un posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto”.

Sulla carta The Testament of Ann Lee dovrebbe/vorrebbe essere un biopic di tipo non tradizionale, un musical mistico incentrato su una leadership femminile, sull’empatia e la gentilezza di questa donna, capace – da analfabeta – di smuovere un considerevole numero di persone, di far crescere la Società Unita dei Credenti nella Seconda Apparizione del Cristo, con l’ambizione di creare un luogo dove tutti potessero essere uguali, uomini, donne e bambini. 

Nelle intenzioni della regista ci sarebbe la volontà di esaltare quella “radicale ricerca di un’utopia costruita con le proprie mani quale segno dell’impulso creativo al centro di ogni sforzo artistico: l’urgente necessità di dare nuova forma al mondo. In particolare, la sua chiarezza d’idee e la capacità di guidare gli altri verso un comune ideale richiamano lo spirito collaborativo che è alla base di qualsiasi impresa creativa, che si tratti di comporre una sinfonia, costruire un edificio o realizzare un film”.

Ed è un parallelismo davvero molto interessante, oltre che suggestivo. Il problema è che rimane tutto terribilmente in superficie, attraverso una narrazione che magari è filologicamente ineccepibile ma al tempo stesso soffocante, respingente, incapace di lasciare margini entro cui far muovere lo spettatore, quasi costringendolo – nei confronti della visione – allo stesso, stringente celibato invocato dalla stessa Mother Lee (fa quantomeno sorridere ripensare all’Amanda Seyfried protagonista del biopic su Linda Lovelace...) quale pilastro fondativo – insieme alla fede e al duro lavoro – del movimento.

Perché non basta mostrare (in alcuni casi anche troppo) per stabilire con chi guarda quel patto d'ingresso, bisognerebbe anche preoccuparsi di trascendere, di evocare, di elevare il mero racconto - che arriva a noi attraverso le parole di una seguace -, altrimenti si svilisce la funzione del dispositivo.

E non basta nemmeno ricorrere alla pellicola (o al font vintage-fichetto per introdurre i vari periodi della vicenda), o avere dalla tua (ancora una volta, ormai sodale anche di Brady Corbet) il genio musicale di Daniel Blumberg (Premio Oscar per la colonna sonora di The Brutalist), perché alla fine quello che resta è la sensazione di aver visto un film su degli invasati che fanno i balli di gruppo. E poco altro.