Teaser mortifero e finale circolare. Il Male invisibile e le vittime giovanissime. Gli incubi e le possessioni. I mostri e le mostrificazioni. Temporali sulla città e muri sonori. Il villino hitchcockiano e le cantine. Lo splatter e le melodie inquietanti. Il panico e il mistero. Ci sono tutti i topoi fondativi dell’horror dentro The Piper di Erlingur Thoroddsen. Il problema è che non c’è altro.

E dire che l’azzardo intermediale di maledire Il pifferaio di Hamelin, celebre favola dei fratelli Grimm che vanta una lunga fortuna cinematografica – fortuna che, per inciso, continua tutt’ora, con il Piper di Anthony Waller – , autorizzava a sperare in qualcosa di meglio.

Eppure l’operazione si fa sin da subito mera traslazione del classico in epoca contemporanea. Mai rielaborazione inventiva, attualizzazione o riappropriazione artistica. L’unica variante consistente rispetto alla fiaba è la moltiplicazione dei suonatori, ma il pifferaio, per l’occasione rapitore di bambini più che di topi, benché orrorificato nell’aspetto, appare fiacco, citazionistico, senza portato spaventevole.

La posseduta dal maligno qui è Melanie (una pallida Charlotte Hope, già Sorella Victoria in The Nun). Fulva, giovane madre e flautista d’orchestra, è decisa raccogliere il testimone della sua vecchia mentore, spinta alla follia e alla morte nel suo villino gotico da uno spartito incompiuto e posseduto.

La ricostruzione della verità per la ragazza si lega a doppio filo con la necessità di completare le musiche per il fatidico concerto per bambini organizzato dall’autoritario direttore d’orchestra Gustafson (incarnato dal Julian Sands, nel frattempo compianto, cui il film è dedicato).

Mentre scatta per Melanie il conto alla rovescia per completare le arie che le salverebbero la carriera, dilagano possessioni che colpiscono sua figlia e l’amichetto, mutilazioni (Philip, docente universitario nonché suo aiutante), apparizioni spettrali, orbite roteanti e vetri in frantumi un tanto al chilo.

Insomma, Thoroddsen si mette a sciorinare con immediatezza e faciloneria atti tutti, ma proprio tutti, i clichè del genere. Ne esce fuori un horror dall’esile impianto visivo, riempitivo, devoto, didascalico, citazionistico, imbastito su un asse narrativo frustro. Per limitarci solo alla strettissima attualità, anche l’ultimo capitolo della saga La casa di Sam Raimi rispolverava un innesco simile: il maligno come parassita insinuante, sempre nero e sempre liquido, che si diffonde da un vinile per sconvolgere dall’interno volti e corpi.

Insomma, la devozione abbonda, la colonna sonora non si fa personaggio ma nostalgia,anzi necrofilia del genere, e Thoroddsen, incapace di variare e sostanziare atmosfere, ritmo e tensione, si mostra incapace di nascondere i suoi padri putativi.

Perciò se i conflitti non sono mai estremizzati, e sia Melanie che tutti i “buoni” rimangono, in fondo, in controllo del demoniaco, la battaglia di genere che fonda la sceneggiatura pare più obbligo di attualizzazione ai tempi che necessità discorsiva: l’alleanza tra madre e figlia, flauto in mano, contro l’antagonista, come quella tra madre e amica contro il direttore d’orchestra che gioca di sponda con Franklin (Philipp Christopher), tenebroso pifferaio del golfo mistico, rimane premeditata, stonata, senza pathos né profondità.

Come tutto il film.