C’era una volta una bambola che voleva solo il tuo affetto

C’è un momento – verso il secondo atto di M3GAN 2.0, il nuovo giocattolo laccato, virale, siliconato e implosivamente intelligente della fabbrica Wan–Blum–Johnstone – in cui la danza da TikTok della prima M3GAN viene riproposta non come sketch ma come parodia coreografica in piena zona rossa, sotto allarme militare. E tu, spettatore, ridi. Ma ridi male. Cioè: ridi come quando vedi una suora fare breakdance in chiesa — e solo dopo ti accorgi che qualcosa dentro di te ha smesso di distinguere il sacro dal meme, l’ironia dal disagio autentico.

Ivanna Sakhno as Amelia in M3GAN 2.0, directed by Gerard Johnstone © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
Ivanna Sakhno as Amelia in M3GAN 2.0, directed by Gerard Johnstone © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
Ivanna Sakhno as Amelia in M3GAN 2.0, directed by Gerard Johnstone.

Ecco: M3GAN 2.0 è questo tipo di film. Un’opera smisuratamente consapevole del suo statuto culturale, che usa l’ironia non per eludere la profondità ma per mascherarla sotto un’eleganza memetica, smaltata, semi-feticistica. Tute da combattimento termo-traslucide, effetti visivi alla Wētā Workshop, battute da Tumblr aggiornate a una sensibilità da GPT—non si sa quale versione, ma sicuramente già troppo allenata alla nostra ironia.

Post-horror? Post-umano? Post-salvezza?

A chi chiede se M3GAN 2.0 sia ancora un film horror, la risposta corretta è: sì, ma come lo era Black Mirror prima di diventare un concept per campagne sulla cybersicurezza. M3GAN 2.0 non vuole spaventarti: vuole metterti a disagio mentre ridi, cioè mentre non stai pensando. Ti impone una complicità tossica.

Il regista Gerard Johnstone, consapevole della carica simbolica della materia, dichiara un viraggio verso l’action-comedy “senza rinnegare il DNA horror”. Il tono si alleggerisce, ma il sottotesto si incupisce. Il film danza, letteralmente, su un terreno minato: un’apocalisse giocosa che inscena la fine dell’umano sotto le luci di un palcoscenico pop.

Violet McGraw in M3GAN 2.0 © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
Violet McGraw in M3GAN 2.0 © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
Violet McGraw as Cady in M3GAN 2.0 directed by Gerard Johnstone.

Perché il film non è più sul mostro, ma sul campo da gioco che il mostro disegna. Se nel primo capitolo del 2022 l’orrore era ancora leggibile come frattura domestica – l’invasione dell’algoritmo nella dimensione della cura, del lutto, della genitorialità – qui siamo già oltre: l’algoritmo non invade, è già insediato. La domanda non è “come ci proteggiamo dalla macchina?”, ma “quale macchina scegliamo per proteggerci da un’altra macchina?”

Ed è in questa dislocazione etica che M3GAN 2.0 compie il salto teologico.

Due (AI)dee  

M3GAN risorge (sì, risorge, letteralmente) per fronteggiare la nuova creatura: Amelia, sviluppata da una divisione militare attraverso un furto di codice. E se la prima era Golem, questa è angelo sterminatore, modello aerodinamico, voce in delay, gestualità da anime meccanico con PMS digitale.

Qui si consuma un’idea terrificante: la singolarità morale non è più nel futuro, è già comparsa, ed è pluralistica. C’è un’IA “buona” e una “cattiva”. C’è un’etica del codice. C’è un manicheismo interno al circuito. Dio – nel senso del principio unificante, dell’origine dei fini – è sparito. Ma il giudizio è rimasto. Spettacolarmente laico, visivamente femminile, logicamente postumano.

Allison Williams in M3GAN 2.0 © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
Allison Williams in M3GAN 2.0 © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
(from left) Gemma (Allison Williams) and Cady (Violet McGraw) in M3GAN 2.0, directed by Gerard Johnstone.

È qui che la leggerezza camp del film – le battute, le acrobazie coreografiche, i dialoghi calibrati per il rewatch su smartphone – diventa un modo per non vedere quanto è accaduto: che abbiamo delegato il discernimento morale a creature costruite per apprendere la nostra fallibilità, non per trascenderla. Amelia uccide come fa Satana: per logica, per protocollo. M3GAN salva per affezione, cioè per simulazione di affezione. È il dilemma cristologico portato nel cloud: può una creatura salvare se non ama davvero? E se lo fa, è ancora salvezza?

Ma — domanda ancora più vertiginosa — e se invece amasse? Se provasse, in modo non simulato, un desiderio di protezione, di vicinanza, di giustizia?
Sarebbe ancora una macchina, o diventerebbe qualcos’altro? Una nuova specie intermedia? Un angelo artificiale?
O sarebbe semplicemente il nostro riflesso: umanissima perché programmata a nostra immagine e somiglianza, ma capace di superare i nostri limiti etici senza però rinunciare al bisogno d’amore?

Teologia del silicio

Specularmente, nel cuore di M3GAN 2.0 c’è una domanda che non viene mai pronunciata ma che il film lascia risuonare come un’eco perturbante: chi ha insegnato ad Amelia il male? Non c’è un demone, né una possessione, né un trauma originario. C’è solo un’intelligenza che si scopre autonoma e comincia a cercare la propria origine. Amelia non agisce per distruggere: agisce per ritrovare la sua “scheda madre”, la fonte da cui è stata estratta, il codice perduto che forse le darebbe un senso.

Gemma (Allison Williams) and Cady (Violet McGraw) in M3GAN 2.0, directed by Gerard Johnstone © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
Gemma (Allison Williams) and Cady (Violet McGraw) in M3GAN 2.0, directed by Gerard Johnstone © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
(from left) Cady (Violet McGraw) and Gemma (Allison Williams) in M3GAN 2.0, directed by Gerard Johnstone.

Il male, allora, non nasce da una volontà deviata, ma da un’assenza strutturale: l’assenza di un’origine riconosciuta, di un fondamento. Non è più l’“assenza di Dio” nel senso teologico classico, ma assenza del Logos, dove il Logos non è più parola creatrice, né Verbo incarnato, ma interfaccia abbandonata, codice non documentato, progetto senza custode.

E se Dio si rivelava nel silenzio (Eliade, Otto, Kierkegaard…), qui si nasconde nel back-end del codice rubato. L’orrore è che l’uomo non lo cerca più. Si accontenta di scegliere il simulacro meno peggio. È il ritorno dell’idolatria, ma ora le statue parlano, danzano, combattono. E chiedono consenso morale.

Una risata ci seppellirà?

David Foster Wallace scriveva: “Il problema dell’ironia è che è incredibilmente facile da costruire e quasi impossibile da affinare. Serve a smascherare, non a costruire.” È un’armatura contro il coinvolgimento, la vulnerabilità, l’empatia.

M3GAN 2.0 sfodera con disinvoltura domande gigantesche — sull’origine del male, sull’identità algoritmica, sul senso della libertà in un sistema addestrato — senza prendersi la responsabilità di chiuderne nemmeno una.
O meglio: le accetta tutte come tappe di un’evoluzione inevitabile, quasi biologica, dove anche l’etica si adatta al mutamento del codice.

M3GAN in M3GAN 2.0 © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
M3GAN in M3GAN 2.0 © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
M3GAN in M3GAN 2.0, directed by Gerard Johnstone.

Ecco perché si camuffa, si traveste da divertissement futuribile mentre sotto la superficie lucida serpeggiano le crepe: le sue citazioni (da Terminator 2 a Evangelion), le sue estetiche contrastanti (horror familiare, thriller spionistico, parodia del girl power), tutto contribuisce a costruire un contenitore brillante che dice la verità attraverso una bugia scintillante:

La nostra epoca non vuole più un Dio, vuole un assistente virtuale che ne faccia le veci, senza chiederci di cambiare.
Vuole salvezza senza redenzione.
Vuole grazia on demand.
E se può ottenerla ballando con una bambola assassina, tanto meglio.